Cultura Bologna
22 luglio 2021, 21:45 @ LunettArena - Giardini Lunetta Gamberini

Un posto al sole

(A Place in the Sun, USA/1951) di George Stevens (122')

Regia: George Stevens. Soggetto: dal romanzo Una tragedia americana di Theodore Dreiser e dalla pièce omonima di Patrick Kearney. Sceneggiatura: Michael Wilson, Harry Brown. Fotografia: William C. Mellor. Montaggio: William Hornbeck. Scenografia: Hans Dreier, Walter Tyler. Musica: Franz Waxman. Int.: Montgomery Clift (George Eastman), Elizabeth Taylor (Angela Vickers), Shelley Winters (Alice Tripp), Anne Revere (Hannah Eastman), Keefe Brasselle (Earl Eastman), Fred Clark (Bellows), Raymond Burr (procuratore distrettuale R. Frank Marlowe), Herbert Heyes (Charles Eastman), Shepperd Strudwick (Anthony Vickers), Frieda Inescort (Mrs. Vickers). Produzione: George Stevens per Paramount Pictures. Durata: 122’
Copia proveniente da Park Circus. Restaurato in 4K nel 2014 da Paramount presso i laboratori Technicolor e Chace, con la supervisione di George Stevens Jr.

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Uno dei più duri attacchi al sogno americano. Stevens era da lungo tempo legato al romanzo di Theodore Dreiser da cui è tratto il film, la storia di un giovane che uccide la fidanzata incinta: lo lesse una prima volta già nel 1925, quando il libro uscì. Fu la Paramount ad acquistare i diritti di Una tragedia americana e fu Josef von Sternberg a dirigerlo nel 1931, provocando lo sdegno di Dreiser. Il suo insuccesso fece sì che la Paramount esitasse a rivisitare il costoso materiale di sua proprietà, finché Stevens, dopo una strenua lotta, non ottenne di realizzarlo a modo suo. Il regista affidò l’adattamento all’autore di sinistra Michael Wilson e al poeta e romanziere Harry Brown e scritturò Elizabeth Taylor e Montgomery Clift, che con il loro bacio ci hanno regalato uno dei momenti più coinvolgenti del cinema: un’inquadratura di un romanticismo delirante, girata usando una lente da sei pollici, trasporta lo spettatore tra le loro braccia. Con Shelley Winters il cast principale era al completo e in grado di donare – per citare Manny Farber – “lampi di recitazione spaventosamente naturale”. Il film, le cui riprese ebbero inizio nell’ottobre del 1949, era caratterizzato da un’altra innovazione, curiosa e incredibilmente efficace, rispetto agli standard hollywoodiani: l’ampio uso di languide dissolvenze incrociate pensate da Stevens per far “scorrere una sorta di energia”. Gli ci vollero diciannove mesi per montare il materiale e sette preview per convincersi di aver realizzato uno dei film migliori della sua carriera, che fu poi premiato con sei Oscar, compresi quelli alla regia, alla sceneggiatura e al montaggio. Stevens cambiò nome al suo protagonista da Clyde a George, forse perché vedeva un po’ di sé stesso nell’ingenuo solitario che fa l’autostop verso un mondo migliore e invece finisce sulla forca. Per quanto cupa, la visione romantica pone il protagonista in uno stato di sogno a occhi aperti, permettendogli di attraversare le sventure con un atteggiamento straordinariamente calmo e sobrio. “La tipica tragedia americana è la tipica tragedia romantica”, scrisse Donald Richie, e questa è la tragedia più completa di Stevens, nel senso che tutte le promesse fatte sono false e tutto il bene va sprecato.

Ehsan Khoshbakht


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