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Comune di Bologna

Album "Il pendolo di Foucault"

In questa gallery raccogliamo documenti che illustrano la genesi e la vita editoriale del secondo romanzo di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (Bompiani, 1988), che fanno riferimento ai temi trattati nell’opera o hanno fornito una base informativa per l’autore. 

Questa non vuole essere un’analisi scientifica ed esaustiva di fonti e documenti utilizzati dall’autore né tantomeno un’interpretazione critica.

Quello che qui proponiamo è il resoconto di un’esperienza di lettura e di ricerca nel patrimonio della nostra biblioteca (con alcune escursioni su altre raccolte documentarie). Non c’è quindi nessuna pretesa di una presentazione esaustiva dei molti argomenti e dei molti materiali che il romanzo potrebbe suggerire, ma la volontà di compiere una scelta sulla base di motivazioni anche episodiche e dettate dall’interesse dei lettori e dalle discussioni che il gruppo di lettura ha sostenuto negli incontri precedenti.

Consci di non incarnare il Lettore Modello presupposto dal testo, del testo faremo un uso specifico piuttosto che darne un’interpretazione, secondo la distinzione posta dallo stesso autore in Lector in fabula (paragrafo 3.4, Uso e interpretazione, p. 59-60).

L’indicazione delle pagine del romanzo citate si riferisce alla prima edizione, pubblicata nel 1988 dall’editore Bompiani. De Il pendolo di Foucault sono comunque sempre indicati anche i capitoli da cui sono tratte le citazioni, per facilitarne l’individuazione in altre edizioni.

I documenti utilizzati sono quasi totalmente conservati e consultabili presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Salvo dove diversamente specificato la collocazione indicata è quindi relativa a questa biblioteca.

immagine di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (1988)
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (1988)
Il pendolo di Foucault uscì nell’ottobre 1988. È il secondo romanzo di Umberto Eco, come gli altri suoi libri pubblicato dall’editore Bompiani. Lo straordinario successo ottenuto da Il nome della rosa sei anni prima, ulteriormente amplificato dal film di Jean-Jacques Annaud uscito nelle sale nel 1986, aveva generato grandissima attesa fra critici e lettori. E sicuramente qualcuno aspettava al varco l’autore per capire se il primo romanzo era stato un caso fortunato.   «Quando un grande attore concede il bis dopo uno straordinario successo, pochi spettatori si aspettano che la nuova prestazione abbia l’intensità, il pathos, la magia della prima [...]. Ed è difficile che il secondo applauso abbia il volume e la durata del primo [...]. Per uscir di metafora (ma non del tutto): Umberto Eco è ricomparso alla ribalta con un secondo romanzo, e da lui i lettori si aspettavano ormai il massimo». (Giosuè Musca, La camicia del nesso. Ovvero Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, «Quaderni medievali», 1898, n. 27, p. 104-149: 104).   Il sucesso di vendite fu immediato, le critiche negative non mancarono e ne vedremo in seguito un paio. Allo stesso tempo si registrarono diversi pareri positivi da parte dei critici e numerose lamentele dei lettori (ne parla in diverse occasioni lo stesso Eco) per l’eccessiva difficoltà di lettura del romanzo, soprattutto se comparata alla prima prova narrativa. Il nome della rosa è quindi sempre il riferimento obbligato per i primi giudizi espressi sul Pendolo. La strategia editoriale d’altra parte aveva favorito questa tendenza. Il risvolto di copertina della prima edizione istituiva da subito un confronto col romanzo precedente basato proprio su una maggiore complessità della struttura del testo che il lettore si accingeva a leggere. Su questa maggiore complessità torneremo. Al momento ci preme sottolineare - anche per la particolarità del lavoro che stiamo compiendo, basato sulla ricerca delle fonti documentarie utilizzate dall’autore - la crescita esponenziale dei riferimenti e delle citazioni a autori e testi rispetto a Il nome della rosa, che pure già poteva essere definito un “libro sui libri”. Nel Pendolo la questione assume maggiore importanza non solo in senso quantitativo, ma perché proprio il citazionismo, la ricerca bibliografica e la capacità di collegare fra loro fonti diverse sono parte integrante della trama, se non addirittura la spina dorsale della storia narrata. Infatti non solo ognuno dei 120 capitoli è aperto dalla citazione di un testo - le cui prime parole sono anche il titolo di quel capitolo nell’indice finale - ma queste 120 citazioni vengono trovate da Casaubon, uno dei protagonisti, all’interno di uno dei file scritti dal suo collega Jacopo Belbo (cap. 6, p. 42). Sono quindi un elemento interno alla storia che diventa paratesto (su questo si veda Ulla Musarra-Schroeder, Mondi possibili ed enciclopedia: strategie narrative nei romanzi di Umberto Eco, in Nel nome del senso: intorno all'opera di Umberto Eco, a cura di Jean Petitot e Paolo Fabbri, p. 511-529: 516). I 120 capitoli sono a loro volta raggruppati in 10 parti intitolate alle 10 Sefirot che formano l’Albero sefirotico la cui rappresentazione è posta nella pagina a fianco del frontespizio nella prima edizione. La struttura del romanzo si ispira quindi alla cultura ebraica, in cui le Sefirot possono essere definite come «gli strumenti con cui la Divinità Infinita (Or Ein Sof) segna attraverso i suoi Nomi il piano ordinato della creazione» (Riccardo Fedriga, Sospettare sempre, in L’idea di biblioteca, p. 117-123: 117). Complessità sembra dunque la parola chiave di cui tenere conto nella lettura e interpretazione del romanzo. Infatti Giosuè Musca, nell’articolo sopra citato - uno dei primi studi sul romanzo uscito su rivista, che supera quindi per possibilità di analisi le recensioni giornalistiche uscite nei primi mesi successivi alla pubblicazione - sente la necessità di preporre al discorso critico un riassunto piuttosto dettagliato del romanzo (p. 105-113). Ci sembra che vada nella stessa direzione - quella di offrire al lettore una bussola per orientarsi nel testo - il Dizionario del pendolo di Foucault redatto da Luigi Bauco e Francesco Millocca sempre nel 1989, che se per stessa ammissione degli autori «non è comprensivo di tutti i riferimenti citati ne Il pendolo di Foucault» (p. 6), ne elenca un numero elevatissimo e si rivela quindi utilissimo per ritrovare all’interno del testo i passi che si riferiscono ai diversi argomenti oltre che a fornire una minima indicazione su testi, autori e temi. Nelle numerose edizioni successive del romanzo non vengono mai aggiunte parti introduttive, prefazioni o postfazioni, né di mano dell’autore né di altri.   Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988. Collocazione: ANCESCHI E. 7, 18
immagine di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (1988)
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (1988)
Come abbiamo già avuto modo di notare in un’altra occasione, la copia del romanzo presente nel Fondo librario ANCESCHI dell’Archiginnasio riporta nel foglio di guardia la dedica manoscritta dell’autore a Luciano Anceschi. Nell’OPAC del Polo Bolognese è già catalogata la copia del romanzo presente nella biblioteca dell’autore al momento della morte, conservata (ma non ancora consultabile) presso la Biblioteca Universitaria di Bologna. A Il pendolo di Foucault è dedicato il già citato capitolo di Riccardo Fedriga, Sospettare sempre, del volume L'idea della biblioteca. La collezione di libri antichi di Umberto Eco alla Biblioteca nazionale Braidense (p. 117-123). Alcune fonti del romanzo sono presenti anche nel capitolo Cambiare il paesaggio del pensiero moderno (p. 97-105) firmato da James M. Bradburne.   Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988. Collocazione: ANCESCHI E. 7, 18
immagine di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (1988)
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (1988)
Abbiamo accennato in precedenza alla «complessità straordinaria» (Ulla Musarra-Schroeder, Mondi possibili ed enciclopedia: strategie narrative nei romanzi di Umberto Eco, in Nel nome del senso: intorno all'opera di Umberto Eco, p. 511-529: 515) della struttura de Il pendolo di Foucault rispetto a Il nome della rosa. Basti pensare all’organizzazione cronologica della storia, ricca di salti temporali come poi succederà in Il cimitero di Praga, ma anche «a livello discorsivo [il testo è] un complesso collage, in cui Casaubon lascia la parola ad altri narratori, come alla voce di Jacopo Belbo attraverso il computer Abulafia, e racconta una storia fatta con spezzoni di altre storie» (Patrizia Magi, “Per speculum et in aenigmate”. L’universo simbolico nella narrativa di Umberto Eco, in Semiotica: storia teoria interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco, p. 263-282: 277). L’alternanza delle voci narranti è segnalata anche graficamente. I testi che Casaubon estrae dal computer di Belbo sono riportati, come in questa pagina, con «una veste grafica diversa, che li fa apparire come scritti al computer ed evidenzia al contempo il principio del montaggio intetestuale» (Susanne Kleinert, L'intellettuale e il computer. Il gioco combinatorio come tecnologia, estetica e riflessione sulla figura dell'intellettuale nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, p. 93). Il testo inoltre, come Il cimitero di Praga, è arricchito da 10 illustrazioni (la prima delle quali è l’Albero sefirotico che già abbiamo visto) di cui a fine volume viene fornito un indice, con indicazione della fonte da cui sono tratte.   Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988. Collocazione: ANCESCHI E. 7, 18
immagine di Isaac Casaubon, Casauboniana (1710)
Isaac Casaubon, Casauboniana (1710)
Sui nomi propri dei personaggi Eco aveva riflettuto al momento dell’uscita de Il nome della rosa, stimolato da diversi lettori che gli avevano fatto notare come certi nomi rimandassero a persone reali o altri personaggi letterari a cui l’autore non aveva neanche pensato. La questione torna di attualità col secondo romanzo e Eco l’affronta nel colloquio con Thomas Stauder. I nomi propri sono classici elementi su cui si possono compiere operazioni di «semiosi illimitata», che possono essere feconde oppure sfociare in una «interpretazione infinita» che non porta a nessun risultato (Thomas Stauder, Colloqui con Umberto Eco, p. 73). Qualcosa di simile è accaduto con Casaubon e Diotallevi:   «Bisogna stare attenti coi nomi. La gente trova infiniti riferimenti che non ci sono. Per esempio, io ricordavo che c’era un Casaubon nel Middlemarch di George Eliot. David Robey, in un articolo per il Times Literary Supplement, fa notare che il Casaubon di George Eliot stava scrivendo un libro intitolato The Key to All Mythologies. Io non ci pensavo affatto! Che Diotallevi c’entrasse con la P2, l’ho saputo dopo» (ibidem).   In fondo è lo stesso rischio che è descritto e parodiato nel romanzo, la ricerca di analogie e legami forzati. Un rischio che si amplifica, per un romanzo come il Pendolo, nel momento in cui «vende 500.000 copie nei primi tre mesi» e quindi finisce nelle mani di un numero di lettori molto più elevato dei 50.000 che, secondo Eco, «conoscono le regole del romanzesco» e quindi non cadono nel tranello di prendere «un romanzo come fosse la realtà» (ivi, p. 75-76). Riconduciamo quindi Casaubon al riferimento più presente nell’orizzonte di Eco, cioè il grande filologo francese, ma nato a Ginevra nel 1559, Isaac Casaubon, autore di studi molto importanti sulla letteratura latina. La scelta dell’omonimia in questo caso ha un significato ben preciso nell’interpretazione del romanzo: il Casaubon personaggio infatti è colui che cerca - non sempre riuscendoci - di opporsi alla «tentazione del sospetto paranoico» affidandosi proprio a quel «buon senso filologico che guidava gli studi del Casaubon «filologo rinascimentale che contestò l’antichità del Corpus Hermeticum» (Franco Forchetti, Il segno e la rosa. I segreti della narrativa di Umberto Eco, p. 93). Fra le molte sue opere scegliamo, per ricordarlo, questo volume che lo celebra anche nel titolo, un’antologia di suoi scritti a cui si aggiungono due lettere.   Isaac Casaubon, Casauboniana, Hamburg, Christian Libezeit, 1710. Collocazione: 2. A. VI. 18    
immagine di Tassidermia
Tassidermia
Un altro esempio di come i nomi proprio possono ingannare e di quanto sia importante conoscere quelle che Eco chiama «le regole del romanzesco». Thomas Stauder dice all’autore di non essersi riuscito a spiegare - ma è davvero necessario spiegarsi tutti i nomi? - il nome del misterioso tassidermista Salon. Eco risponde:   «Indovinarlo sarebbe facilissimo ma sbagliato: Salon è la città di Nostradamus. Però questa è soltanto una divertente coincidenza, perché nella mia infanzia [...] al piano sotto di noi abitava un impagliatore di animali che si chiamava signor Salon. [...] Mi ricordo che il giorno che è nata mia sorella [...] ero stato mandato dal signor Salon, e ho passato tutto il pomeriggio [...] nel suo laboratorio. Da questo ricordo deriva la descrizione dell’antro del tassidermista nel Pendolo. L’unica cosa che non è un ricordo è la storia dell’aquila che sembra un pendolo, perché se si va a vedere la voce “tassidermia” sull’Enciclopedia Treccani, c’è disegnata una figura con l’immagine di un uccello. Ma è l’unica immagine libresca, mentre tutto il resto viene da quel ricordo. Quindi talvolta l’elemento biografico può venire fuori in pagine in cui il lettore non lo sospetta, può essere anche nella descrizione di un ambiente inverosimile». (Thomas Stauder, Colloqui con Umberto Eco, p. 64).   Tassidermia, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Vol. 33: Sup-Topi, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, [1950], rist. fotolit. dell’ed. 1937, p. 305-306. Collocazione: CONS. ENCICLOPEDIE 1-8    
immagine di Commentaires des mémoires de M. le Comte de Saint Germain (1781)
Commentaires des mémoires de M. le Comte de Saint Germain (1781)
C’è un caso in cui l’ipotetica relazione fra personaggio romanzesco e persona storicamente esistita diventa un vero e proprio elemento della trama e percorre l’intera vicenda. Anche se la stessa esistenza di quella che qui abbiamo definito “persona storicamente esistita” è un mistero. Il personaggio in questione è naturalmente Simone Agliè, che Casaubon conosce in Brasile e che poi viene coinvolto nelle attività della casa editrice per le sue sterminate conoscenze in campo esoterico. Agliè fin da subito vuole fare credere di essere il Conte di Saint-Germain, figura leggendaria e misteriosa che compare in molte opere letterarie ma anche in memorie di personaggi famosi, da Cagliostro a Casanova. Una delle caratteristiche del Conte è che se ne trova traccia in testi molto distanti fra loro cronologicamente, tanto che lo si è ritenuto - o almeno molti degli adepti a culti esoterici lo hanno ritenuto - immortale.   «“Adoro i culti di Iside,” disse Amparo, che spesso per orgoglio amava fingersi fatua. “Lei sa tutto sui culti di Iside, immagino”». Agliè rispose con modestia: “Solo quel poco che ne ho visto”. Amparo cercò di riguadagnar terreno: “Non era duemila anni fa?” “Non sono giovane come lei,” sorrise Agliè» (cap. 26, p. 142).   Eco dunque porta il suo gioco dell’ambiguità al quadrato, rendendo una persona che si suppone sia realmente esistita - ma della cui biografia si hanno tracce frammentarie e ricche di mistero - un personaggio che alimenta quello stesso mistero facendo credere di essere l’ennesima reincarnazione di quella persona. Un complicato intreccio fra realtà e finzione che diviene ancora più intricato quando lo stesso Eco sembra confondere la misteriosa figura del Conte di Saint-Germain con una figura dalla biografia ben più “solida” e ben documentata, cioè il Claude-Louis-Robert, comte de Saint-Germain, che fu soldato e funzionario dello Stato francese e pubblicò nel 1779 le proprie memorie, che vennero commentate nell’opera di cui vediamo qui il frontespizio (consultabile online in un’edizione di un anno precedente). All’inizio del capitolo 75 (p. 334), quasi interamente occupato da una cronologia che comprende gli ultimi tre secoli e elenca la comparsa sulla scena di decine di sette o associazioni esoteriche più o meno segrete, Eco infatti scrive: «1707   Nasce Claude-Louis de Saint Germain, se davvero è nato». Sembra dunque che, per l’autore del Pendolo, il soldato e statista francese sia una delle tante incarnazioni della misteriosa figura del Conte di San Germano (nel romanzo Agliè viene sempre definito così, con la trasposizione italiana della denominazione francese). Rinunciamo a indagare oltre su quanto questa confusione sia stata voluta da Eco. Nel Dizionario del pendolo di Foucault la voce Saint-Germain, Claude-Louis de, rimanda alla voce San Germano (conte di), avallando dunque una identificazione fra i due. Una piccola annotazione editoriale. La lunga cronologia del capitolo 75, nell’ultima edizione del romanzo, non ha più la forma di un elenco scritto che Casaubon mostra ai suoi due complici, ma è riscritta come discorso diretto dello stesso Casaubon, che legge il documento da lui scritto.   Commentaires del mémoires de M. le Comte de Saint-Germain, Londres, s.n., 1781. Collocazione: 9. qq. III. 81
immagine di Alexander Lernet Holenia, Il conte di Saint-Germain (1984)
Alexander Lernet Holenia, Il conte di Saint-Germain (1984)
Le tracce del misterioso Saint-Germain si trovano sia in opere di memorialistica che in testi di fiction. Questo romanzo di Alexander Lernet-Holenia, pubblicato per la prima volta nel 1948, è a lui intitolato anche se ambientato in Austria alla vigilia dell’annesione del paese alla Germania nazista. Ennesima prova di ubiquità cronologica del misterioso e affascinante conte. Fra i testi in cui compare Saint-Germain, il Pendolo ricorda anche Gog di Giovanni Papini (cap. 27, p. 146), romanzo a cui Eco dedicherà una Bustina nel 1995.   Alexander Lernet-Holenia, Il conte di Saint-Germain, Milano, Adelphi, 1984. Collocazione: ANCESCHI C. 74, 21
immagine di Fernando Salsano, Un flagello fabulatorio che deforma, dissacra, offende («L'Osservatore Romano», 13 novembre 1988)
Fernando Salsano, Un flagello fabulatorio che deforma, dissacra, offende («L'Osservatore Romano», 13 novembre 1988)
Eco commenta così le reazioni suscitate dai suoi primi due romanzi nell’ambito della critica letteraria di ambiente cattolico:   «La cosa più curiosa è che mentre, malgrado la rappresentazione di un Medioevo pieno di contraddizioni, Il nome della rosa non è fondamentalmente dispiaciuto ai cattolici, il Pendolo ha colpito invece molti di loro come una specie di negazione di ogni valore, mentre a me sembra proprio il contrario» (Thomas Stauder, Colloqui con Umberto Eco, p. 66)   Il riferimento è soprattutto a questo articolo di Fernando Salsano comparso su «L'Osservatore Romano», talmente radicale nella sua negatività da stroncare non solo il romanzo ma le recensioni positive comparse su altri periodici.   Fernando Salsano, Un flagello fabulatorio che deforma, dissacra, offende, «L'Osservatore Romano», 13 novembre 1988, p 3. Collocazione: Ex Granarolo. G.S.123
immagine di Umberto Eco, Progetto per una facoltà di irrilevanza comparata
Umberto Eco, Progetto per una facoltà di irrilevanza comparata
Prima di inventare e costruire il Piano che li porterà alla rovina e che è il punto più alto di dissacrazione di ogni sapere o credenza “ufficiali” che Salsano imputa all’autore nella recensione vista nell’immagine precedente - Belbo e Diotallevi facevano già un gioco simile pur se più innocuo, che Belbo spiega così:   «“È che Diotallevi, e io stesso, stiamo progettando una riforma del sapere. Una Facoltà di Irrilevanza Comparata, dove si studino materie inutili o impossibili. La facoltà tende a riprodurre studiosi in grado di aumentare all'infinito il numero delle materie irrilevanti”» (cap. 12, p. 67).   Il Progetto per una facoltà di irrilevanza comparata viene da lontano, dal momento che nacque «negli anni settanta durante un lungo consiglio di facoltà, e con la colllaborazione di Ezio Raimondi e Giorgio Sandri», come ci informa una nota presente in Il secondo diario minimo, in cui Eco elenca le materie impossibili o inutili che formano i quattro dipartimenti in cui la facoltà è divisa (p. 188-190: 188).   Umberto Eco, Progetto per una facoltà di irrilevanza comparata, in Id., Il secondo diario minimo, Milano, Bompiani, 1992, p. 188-190. Collocazione: CAGLI F. 14
immagine di Cristina Taglietti, Risvolti di copertina (2019)
Cristina Taglietti, Risvolti di copertina (2019)
La recensione di Salsano offre ancora uno spunto di riflessione, quando accusa altri periodici, che hanno recensito il Pendolo in maniera positiva, di essere schiavi di un’industria culturale che deve promuovere in maniera acritica i grandi nomi o i prodotti che hanno alle spalle gruppi di potere particolarmente potenti. E non c’è dubbio che Eco, pubblicato da Bompiani, rientri in questa categoria. Il Pendolo è anche una riflessione su questa industria culturale. Più nello specifico sulla vita di una casa editrice. I tre protagonisti Belbo, Diotallevi e Casaubon lavorano infatti per il signor Garamond, titolare dell’omonima casa editrice, specializzata in testi accademici di qualità e provato rigore scientifico. Garamond possiede però un’altra casa editrice, la Manuzio:   «La Manuzio era una casa editrice per APS. [...] Un APS è un Autore a Proprie Spese e la Manuzio è una di quelle imprese che nei paesi anglosassoni si chiamano "vanity press". Fatturato altissimo, spese di gestione nulle» (cap. 39, p. 197).   In pratica la Manuzio, con pubblicazioni di scarsa qualità ma finanziate da autori disposti a tutto per vedere pubblicate le proprie pagine, finanzia l’editoria di qualità della Garamond. Gli APS infatti, grazie all’abilità adulatoria dell’editore e ad alcuni stratagemmi amministrativi, finiscono per pagare una cifra ben superiore alle spese sostenute dalla casa editrice per il loro libro. Si generano quindi utili da reinvestire. Eco non svela nessun segreto del mondo editoriale, porta all’estremo - e quindi alla parodia - meccanismi ben conosciuti. Costruisce però situazioni narrative divertenti sul tema e ci offre una visione della vita della doppia casa editrice dall’interno, anche in senso fisico, dal momento che acquisiscono importanza anche gli ambienti in cui si svolgono le attività editoriali, come sottolinea lui stesso:   «Nel Pendolo di Foucault dico che le due case editrici Manuzio e Garamond sono in due stabili diversi ma attigui, tra i quali era stato praticato un passaggio, con una porta smerigliata e tre scalini. Ho calcolato a lungo come si potesse praticare un passaggio tra quei due stabili, e se occorresse prevedere un dislivello, disegnando varie piante. Il lettore fa quei tre scalini senza rendersene conto (credo), ma per me erano fondamentali». Umberto Eco, Come scrivo, in Id., Sulla letteratura, p. 342-379: 356)   Non costava nulla, anzi semplificava le cose, immaginare le due case editrici fisicamente separate. Ma è proprio quel dettaglio del potere passare dall’una all’altra senza soluzione di continuità che aggiunge significato e ironia a molti degli episodi narrati nel romanzo che si svolgono in quei due palazzi. Questa attenzione alla vita interna delle case editrici, intesa appunto anche in senso fisico, alle sedi in cui le attività editoriali si svolgono, la si ritrova nel libro di cui vediamo la copertina. Citiamo dalla breve prefazione:   «Questo volume nasce da qui: dal desiderio di condurre il lettore dietro quei portoni, di mostrare chi abita quelle stanze, in quali spazi si pensano e si realizzano i libri che leggiamo, come si formani i grandi bestseller internazionali sui tavoli degli editor o qual è la strada che percorre un testo per arrivare dal computer di un esordiente agli scaffali, anche virtuali, delle librerie» (p. VIII).   Fra le 14 case editrici di cui si parla in questo libro compare anche La Nave di Teseo, della quale Umberto Eco fu co-fondatore.   Cristina Taglietti, Risvolti di copertina. Viaggio in 14 case editrici italiane, Bari-Roma, Laterza, 2019. Collocazione: 20. K. 4811
immagine di Emerico Giachery, Come pubblicare un libro (1948)
Emerico Giachery, Come pubblicare un libro (1948)
All’interno della vita della Garamond e della Manuzio grande importanza ha il rapporto con gli autori, che siano APS o scrittori di valore. Oggi sono molti i testi che si propongono di insegnare agli autori come muoversi nel mondo editoriale, sia quello tradizionale che quello del self-publishing. Nell’impossibilità di darne conto anche solo in maniera parlziale, ci sembra più curioso ripescare questo testo del 1949, così che chi lo ritiene interessante possa verificare quanto (e soprattutto come) siano cambiate le cose. Qui potete leggere, per un primo approccio, l’indice e la breve premessa.   Emerico Giachery, Come pubblicare un libro, Roma, OET-Ed. Polilibraria, 1948. Collocazione: BIGIAVI B. 949
immagine di Alberto Asor Rosa, Il Trattato dell'Impostura («la Repubblica», 4 ottobre 1988)
Alberto Asor Rosa, Il Trattato dell'Impostura («la Repubblica», 4 ottobre 1988)
Le recenti polemiche nate attorno all’uso dell’Intelligenza Artificiale per la scrittura di testi narrativi o saggistici, e in particolare relativamente al libro Ipnocrazia. Trump, Musk e la nuova architettura della realtà di Jianwei Xun - pseudonimo sotto cui si cela un team di autori che ha composto gran parte dell’opera proprio utilizzando l’IA - ha riportato all’attenzione delle cronache la recensione con cui Alberto Asor Rosa accolse Il pendolo di Foucault. Uno dei punti negativi messi in luce dal critico era proprio il fatto che, per stessa ammissione di Eco, il romanzo era stato scritto al computer, dato per niente scontato nel 1988. Mariano Tomatis rievoca la discussione sull’uso del computer nella scrittura del Pendolo con queste parole:   «Tra le critiche invecchiate peggio spicca quella di Alberto Asor Rosa, che ne metteva in dubbio il valore letterario a causa dell’uso del computer in fase di scrittura. Secondo Asor Rosa, la macchina avrebbe avuto un ruolo così dominante da ridimensionare l’apporto creativo dell’autore stesso. Con il tempo, quella posizione si è cristallizzata in una formula tanto efficace quanto superficiale: Il Pendolo vale poco perché è stato scritto al computer. Un giudizio che oggi appare datato, visto che praticamente ogni libro viene redatto con un word processor». (Mariano Tomatis, Scritto al computer, dunque falso? Da Eco a Xun, la rivincita degli inganni generativi, «L’indiscreto», 17 aprile 2025).   Al di là delle polemiche, sicuramente Abulafia, il computer di Belbo, è un vero e proprio personaggio del romanzo, «personaggio assolutamente atipico: poco presente rispetto agli altri personaggi, ma sempre in scena nei momenti fondamentali del romanzo» (Christian D’Agata, La password di Abulafia. Una riflessione tra lessicografia e informatica a partire dal Pendolo di Foucault di Umberto Eco, p. 136). Abulafia è il quarto autore del Piano insieme a Belbo, Casaubon e Diotallevi, visto che è “lui” a suggerire le prime connessioni e analogie fra elementi distanti fra loro, mettendo in moto quello che diventerà un gioco mortale. Dobbiamo però anche registrare che se Belbo si diverte a giocare con la nuova tecnologia - e che Eco si rispecchi in lui ce lo dicono le Bustine di Minerva dedicate ai suoi esperimenti con il calcolatore elettronico - Casaubon riesce a giocare lo stesso gioco utilizzando schede cartacee in cui appunta i dati salienti dei testi che legge, escogitando analogie tanto sorprendenti quanto convincenti secondo la perversa logica su cui si basa il complottismo parodizzato nel romanzo. Il computer quindi è uno strumento di grande utilità e fascino, ma Casaubon ottiene gli stessi risultati avvalendosi dello stesso sistema pre-informatico che Eco suggeriva nel grande classico del 1977 Come si fa una tesi di laurea.   Alberto Asor Rosa, Il Trattato dell'Impostura, «la Repubblica», 4 ottobre 1988, p. 32-33. Collocazione: G. 131
immagine di Moshe Idel, L'esperienza mistica in Abraham Abulafia (1992)
Moshe Idel, L'esperienza mistica in Abraham Abulafia (1992)
Abraham ben Samuel Abulafia fu uno dei più importanti studiosi della Qabbalah ebraica in epoca medioevale. Questo libro ne tratteggia la figura e propone anche alcuni dei suoi testi più importanti. Il motivo per cui Belbo “battezza” Abulafia il computer appena giunto negli uffici della casa editrice Garamond è spiegato nel capitolo 5, in cui Casaubon rievoca il dialogo tenutosi fra lo scettico Diotallevi e l’entusiasta Belbo di fronte al nuovo oggetto tecnologico (p. 33-37). Il computer è visto come strumento in grado di portare al massimo livello proprio l’arte combinatoria che è alla base della pratica cabalistica. Si veda anche il primo file informatico che viene riportato nel testo, intitolato appunto Abu (cap. 3, p. 27-29).   Moshe Idel, L'esperienza mistica in Abraham Abulafia, Milano, Jaca Book, 1992. Collocazione: 20. W. 1658
immagine di Tape Mark I (1962)
Tape Mark I (1962)
Nell’«Almanacco letterario Bompiani» del 1961 Elémire Zolla pubblicò l’articolo La distruzione della prosa mediante macchine elettroniche, alla fine del quale esaminava le possibilità aperte da Mark I, «editor perfetto», «la macchina che traduce per le forze aeree americane», «ancora incerto quanto alla sintassi, ma fra un anno sarà dotato di adeguate “informazioni” sulla struttura del periodo» (p. 286). L’anno successivo l’«Almanacco letterario Bompiani» venne interamente dedicato a Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura. Eco naturalmente, in quanto collaboratore della casa editrice, partecipò al volume con un testo intitolato La forma del disordine (p. 175-187), in cui citava l’esperimento più interessante del volume, «le poesie elettroniche di Nanni Balestrini. Con la complicità di un poeta e di ingegnere programmatore, il cervello IBM ha sparato più di tremila variazioni dello stesso gruppo di versi, tentando tutte le combinazioni che le regole di partenza gli davano come possibili» (p. 176). L’immagine mostra la poesia finale che uscì dalle combinazioni di versi e, nella pagina a sinistra, alcune delle altre possibili combinazioni proposte dall’elaboratore. L’arte combinatoria propria della Qabbalah, e che Casaubon aveva cercato di utilizzare - inutilmente - per scovare la password per accedere ai segreti di Abulafia, è qui esemplificata in un esperimento informatico-letterario che precede il romanzo di 15 anni e più, ma che sicuramente è ben vivo nella memoria dell’autore. Qui è possibile leggere sia le pagine in cui Balestrini racconta nel dettaglio il suo esperimento sia il testo di Eco citato precedentemente.   Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, «Almanacco letterario Bompiani», 1962. Collocazione: 19/330  
immagine di Iscrizioni, esami e verbali con il computer entro il 1990 all'Università La Sapienza («L'Osservatore Romano», 17 novembre 1988)
Iscrizioni, esami e verbali con il computer entro il 1990 all'Università La Sapienza («L'Osservatore Romano», 17 novembre 1988)
Durante la ricerca dell’articolo di Fernando Salsano prima citato ci siamo casualmente imbattuti in un articolo che testimonia come nel 1988 il computer stesse diventando centrale in ogni campo e fosse sul punto di modificare la vita quotidiana. Nel novembre di quell’anno «L'Osservatore Romano» dà notizia dell’imminente «adozione di un nuovo sistema telematico in grado di smaltire rapidamente, e senza l’ausilio di materiale cartaceo, le pratiche relative alle iscrizioni, alla richiesta di bollettini e certificati e alla registrazione degli esami sostenuti» presso l’Università La Sapienza di Roma. Col senno di poi possiamo dire che la realtà è stata più lenta di quanto promesso dall’articolo.   Iscrizioni, esami e verbali con il computer entro il 1990 all'Università La Sapienza, «L'Osservatore Romano», 17 novembre 1988. Collocazione: Ex Granarolo. G.S.123
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Il flipper di Pilade (e di Lorenza)
Forse pecchiamo di quell’eccesso di ricerca dell’analogia che porterà alla rovina il trio Belbo-Casaubon-Diotallevi, ma c’è un’altra macchina che è protagonista del romanzo e la cui diffusione scandisce il passare dei decenni. È il flipper che troneggia nel bar Pilade, in cui i protagonisti del romanzo sono soliti ritrovarsi. Installato fra gli anni Sessanta e Settanta come attrattiva per una nuova clientela al posto del vecchio biliardo (cap. 8, p. 50), alla metà degli anni Ottanta sopravvive «Per compiacere il nucleo storico» degli avventori del bar, pur se ormai superato da «altre macchine con lo schermo fluorescente, dove planavano a schiera poiane bullonate, kamikaze dello Spazio Esterno, o una rana saltava di palo in frasca emettendo borborigmi in giapponese» (cap. 34, p. 177). Al flipper Belbo dedica uno dei files contenuti in Abulafia (p. 177-178), che descrive come Lorenza Pellegrini giocava con quel vecchio oggetto ludico, «con le mani ma anche col pube» (p. 177). Casaubon è convinto che Belbo si sia innamorato di Lorenza proprio vedendola giocare a flipper - anzi col flipper. Un avvenimento decisivo dal momento che «La gelosia verso Lorenza è [...] il motore stesso dell’azione romanzesca» (Christian D’Agata, La password di Abulafia, p. 136). L’immagine mostra uno dei primi flipper elettrici prodotti, datato 1949. Come fa notare la didascalia, le pinne respingenti sono rivolte verso l’interno, mentre nei modelli successivi saranno rivolte all’esterno. Nei primi modelli, risalenti agli anni Trenta, le pinne non erano presenti. Le macchine a gettone - flipper, juke box, ecc. - furono molto importanti nel definire la nozione di tempo libero alla metà del XX secolo e diventarono uno degli oggetti che contribuirono a identificare i “giovani” come categoria a sé stante, sia in senso sociale che come segmento a cui il mercato poteva rivolgersi.   American play & emozioni a gettone: slot machine, juke box e flipper della collezione Morlacchi, Milano, Electa, [1996]. Collocazione: 20. Y. 911  
immagine di Mario G. Losano, Storie di automi (1990)
Mario G. Losano, Storie di automi (1990)
Un altro modello di flipper elettrico prodotto nel 1939, anche questo senza pinne respingenti.   Mario G. Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla belle époque, Torino, G. Einaudi, [1990]. Collocazione: CONT. 332 742
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Il Conservatoire National des Arts et Métiers
Il romanzo inizia all’interno del Conservatoire National des Arts et Métiers e nello stesso luogo tornerà verso la fine della storia, con le scene cruciali del rito magico inscenato dai vari gruppi di “diabolici” - come sono denominati coloro che credono nell’esistenza di un Piano segreto che da secoli è in atto e che presto giungerà a compimento - e della morte di Jacopo Belbo. Da qualche anno il Conservatoire ha cambiato nome in Musée des Arts et Métiers, denominazione che riunisce in un unico soggetto le due vocazioni dell’istituzione, quella dell’insegnamento - il Conservatoire appunto - e quella museale, precedentemente incarnata nel Musée National des Techniques. A Bologna una situazione simile la si ritrova nell’intreccio di storie e collaborazioni esistente fra l’Istituto di istruzione superiore “Aldini Valeriani” e il Museo del Patrimonio Industriale. Queste due istituzioni bolognesi hanno a lungo pubblicato una rivista, «Scuolaofficina», in cui compaiono diversi articoli che negli anni si sono occupati della storia e dell’evoluzione del Conservatoire-Musée. Nel numero del gennaio-giugno 1989 si trova un’intervista all’allora direttrice del museo, Dominique Ferriot, in cui si tracciano i programmi futuri, e una scheda che invece ricostruisce il periodo più antico della storia dell’istituto. Nel romanzo Casaubon sintetizza così le circostanze della nascita del Conservatoire:   «“Non solo,” aggiunsi, “ma il Conservatoire fu pensato come omaggio a Bacone. Il 25 brumaio dell'anno III la Convenzione autorizza il suo Comité d'Instruction Publique a far stampare l'opera omnia di Bacone. E il 18 vendemmiaio dello stesso anno la stessa Convenzione vota una legge per fare costruire una casa delle arti e dei mestieri che avrebbe dovuto riprodurre l'idea della Casa di Salomone di cui parla Bacone nella Nuova Atlantide, come il luogo in cui si sarebbero ammassate tutte le invenzioni tecniche dell'umanità”. “E allora?” chiese Diotallevi? “È che al Conservatoire c’è il Pendolo,” disse Belbo» (cap. 74, p. 331).   Les arts et Métiers en revolution, a cura di Cosetta Bigalli Il Conservatoire National des Arts et Métiers: dalle origini agli sviluppi del secolo XIX, scheda a cura di Roberto Curti e Cosetta Bigalli «Scuolaofficina», VIII, n. 1, gennaio-giugno 1989, p. 22-23. Collocazione: A. 1636 (1989)
immagine di Da Conservatoire a Musée
Da Conservatoire a Musée
Ancora un articolo da «Scuolaofficina», in cui si raccontano le modifiche - sintetizzate nel già citato mutamento del nome dell’istituto - con cui l’ex Conservatoire ha affrontato l’ingresso nel nuovo millennio.   Cosetta Bigalli, Oggetti semplici oggetti. La rinascita del Musée des Arts et Métiers di Parigi, «Scuolaofficina», XX, n. 2, luglio-dicembre 2001, p. 12-16. Collocazione: A. 1636 (2001)
immagine di «Fu allora che vidi il Pendolo»
«Fu allora che vidi il Pendolo»
Sono le parole che aprono il romanzo: «Fu allora che vidi il Pendolo». Chi parla naturalmente è Casaubon, visitatore del Conservatoire il 24 giugno, in cerca di un luogo in cui nascondersi al momento della chiusura per potere assistere al rito magico dei “diabolici”, in programma la notte di S. Giovanni come previsto dal Piano. E anche noi vediamo per la prima volta il Pendolo - Eco lo scrive con la maiuscola quando non ha ulteriori specificazioni, quasi a indicare che quello è il Pendolo per eccellenza, mentre usa la minuscola quando, più raramente, è accompagnato dall’indicazione «di Foucault» - in questa immagine tratta da un altro articolo di «Scuolaofficina», in cui si analizza un cd-rom che il Musée des Arts et Métiers ha appena prodotto per promuovere le proprie collezioni. È giunto il momento di occuparci dell’oggetto, di chi lo ha realizzato e dell’immenso significato che questo esperimento ebbe nella storia della scienza (e non solo).   Anna Maria Martinuzzi, Musée des Arts et Métiers, «Scuolaofficina», XVII, n. 2, luglio-dicembre 1998, p. 11-13. Collocazione: A. 1636 (1998)
immagine di Léon Foucault, Sul totale ecclissi del sole nel luglio 1851 (1851)
Léon Foucault, Sul totale ecclissi del sole nel luglio 1851 (1851)
Prima di arrivare al Pendolo, qualche parola su Léon Foucault. Outsider del mondo scientifico francese di metà Ottocento, spesso snobbato dai più importanti scienziati, ottenne un riconoscimento tardivo (in Francia ancora più che in altri paesi). Tutto ciò nonostante abbia non solo progettato e realizzato l’esperimento del pendolo, ma sia stato in grado di «costruire nuovi telescopi, inventare regolatori delle luci di scena, migliorare la tecnica fotografica, misurare la velocità della luce nell’aria e nell’acqua e inventare il giroscopio» (Amir D. Aczel, Pendulum. Léon Foucault e il trionfo della scienza, p. 10). Foucault si applicò anche a migliorare la dagherrotipia, in particolare per abbreviare da 30 minuti a 20 secondi il tempo di esposizione necessario per impressionare la lastra (ivi, p. 53), in modo che potessero essere realizzate anche immagini di persone e non solo di oggetti. Il risultato lo vediamo in questo suo autoritratto, riportato nel libro di Aczel sopra citato (p. 2). In questo opuscolo, integralmente consultabile online, Foucault si occupa ancora di astronomia, cosa che non sorprende poiché la data, 28 luglio 1851, lo colloca nei mesi immediatamente successivi all’esperimento del pendolo.   Léon Foucault, Sul totale ecclissi del sole nel luglio 1851, Roma, Tipografia delle scienze, 1851. Collocazione: PALMAVERDE Opuscoli C. 271
immagine di Léon Foucault e il «Journal des débats»
Léon Foucault e il «Journal des débats»
Foucault fu a lungo redattore scientifico del «Journal des débats», «un quotidiano all’epoca molto rinomato in Francia. Il redattore scientifico aveva l’incarico di riportare sul giornale le novità scientifiche più importanti discusse nelle riunioni che l’Académie des Sciences teneva ogni lunedì» (Amir D. Aczel, Pendulum. Léon Foucault e il trionfo della scienza, p. 55). La sua opera viene ricordata in questo volume pubblicato nel 1889 per celebrare il centenario della pubblicazione del quotidiano (in particolare p. 456-460). Dell’esperimento del pendolo si dice: «Ce ne fut là qu’un début pour le jeune physicien; les expériences et les travaux se multiplièrent» (p. 459). Sull’esperienza di Foucault come    Le livre du centenaire du Journal des débats, 1789-1889, Paris, Plon, Nourrit, 1889. Collocazione: VENTURINI C. 73
immagine di Vedere la Terra girare...
Vedere la Terra girare...
L’immagine rappresenta il momento in cui il mondo scientifico - e un numeroso pubblico non specialista, visto che l’esperimento ebbe vastissima eco - dovette accettare la validità di quanto teorizzato e realizzato da Léon Foucault, con la decisiva collaborazione dell’ingegnere Paul Gustave Froment. Nel marzo 1851 infatti Foucault replicò nel Panthéon di Parigi ciò che aveva visto accadere due mesi prima nella cantina della sua casa e che in febbraio era stato mostrato a un gruppo di importanti scienziati, una dimostrazione per specialisti organizzata all’interno dell’Osservatorio di Parigi. Il pendolo appeso a un punto del soffitto mutava il proprio piano di oscillazione senza che nessuno intervenisse a modificare il suo moto naturale. L’unica spiegazione possibile per il fenomeno era che la Terra ruotasse su se stessa. Fino a quel momento la teoria della rotazione terrestre, che a sua volta prelude a una concezione eliocentrica del moto dei pianeti e degli astri, era stata più volte, fin dall’antichità, postulata e anche dimostrata teoricamente e matematicamente. Ma non era mai stata verificata con una prova empirica e inconfutabile. In poche parole: Foucault permise a tutti di vedere la Terra girare.   Stéphane Deligeorges, Foucault e la prova del pendolo, Milano, Bompiani, 1990. Collocazione: 34. B. 7828
immagine di 1855: Il pendolo del Conservatoire
1855: Il pendolo del Conservatoire
L’esperimento di Foucault venne replicato molte volte, in diversi paesi e da altri scienziati. A Parigi venne ripetuto nel 1855 in occasione dell’Exposition universelle, come informa la didascalia dell’immagine. Il luogo deputato a ospitare il pendolo fu proprio il Conservatoire des Arts et Métiers, dove Casaubon lo vedrà 130 anni più tardi.   Stéphane Deligeorges, Foucault e la prova del pendolo, Milano, Bompiani, 1990. Collocazione: 34. B. 7828
immagine di Christiaan Huygens, Horologium oscillatorium (1673)
Christiaan Huygens, Horologium oscillatorium (1673)
Come ogni esperimento scientifico, anche quello del pendolo di Foucault fece tesoro di molti studi e tentativi precedenti. Dal punto di vista degli studi relativi al moto terrestre, un riassunto dei diversi passi compiuti e degli ostacoli che la scienza ha dovuto superare per raggiungere la verità si trova nel secondo capitolo del già citato Pendulum di Amir D. Aczel (p. 16-28). Per la realizzazione dell’esperimento però, Foucault e Froment dovevano naturalmente conoscere anche il funzionamento del pendolo per trovare il modo migliore di rendere il suo moto naturale. Quest’opera è molto importante per stabilire una connessione fra il moto del pendolo e la rotazione terrestre:   «Coincidenza non casuale, l'uomo dei Rosa-Croce, Salomon de Caus, scrive per Richelieu un trattato sugli orologi solari. Dopo, da Galileo in avanti è una ricerca forsennata sui pendoli. Il pretesto è come usarli per determinare le longitudini, ma quando nel 1681 Huygens scopre che un pendolo, preciso a Parigi, ritarda in Caienna, capisce subito che questo dipende dalla variazione della forza centrifuga dovuta alla rotazione della Terra. E quando pubblica il suo Horologium, in cui sviluppa le intuizioni galileiane sul pendolo, chi lo chiama a Parigi? Colbert, lo stesso che chiama a Parigi Salomon de Caus per occuparsi del sottosuolo!» (cap. 84, p. 363).   Christiaan Huygens, Horologium oscillatorium, siue de motu pendulorum ad horologia aptato demonstrationes geometricæ, Paris, François Muguet, 1673. Collocazione: 11. P. II. 04
immagine di Louis Étienne François Héricart de Thury, Rapport sur le pendule à compensation (1829)
Louis Étienne François Héricart de Thury, Rapport sur le pendule à compensation (1829)
Un altro importante studio sul moto del pendolo, che precede di poco più di 20 anni l’esperimento del 1851. Come questo, normalmente gli studi sui pendoli erano pensati per avere applicazione nel campo dell’orologeria. Foucault ebbe il merito di cogliere il suggerimento proveniente da Huygens - e da Galileo prima di lui - di utilizzare il pendolo per lo studio della rotazione terrestre.   Louis Étienne François Héricart de Thury, Rapport sur le pendule à compensation naturelle de M. Henry Robert, horloger-mecanicien, Paris, Pillet ainé, imprimeur du Roi, 1829. Collocazione: 11-FISICA 11, 02    
immagine di Lorenzo Respighi, Sul moto del pendolo (1854)
Lorenzo Respighi, Sul moto del pendolo (1854)
Lorenzo Respighi, astronomo, oltre a essere stato docente presso l’Università di Bologna, tenne l’incarico di direttore dell’Osservatorio Astronomico del capoluogo emiliano a partire dal 1855. L’anno prima pubblicò questo opuscolo che - quasi inevitabilmente, vista la vicinanza cronologica - prende le mosse proprio dalla «notiza del celebre esperimento trovato dall’esimio fisico S.r Leon Foucault per dimostrare nel modo il più incontestabile il moto rotatorio» che suscitò un vero e proprio fermento fra gli scienziati desiderosi di confermarla con ulteriori esperienze (p. 3).   Sul moto del pendolo. Memoria del professore Lorenzo Respighi, Bologna, Tipografia a San Tommaso D'Aquino, 1854. Collocazione: 11-FISICA FISICA 10, 12
immagine di Timoteo Bertelli, Appunti storici intorno alle ricerche sui piccoli e spontanei moti dei pendoli fatte dal secolo XVII in poi (1873)
Timoteo Bertelli, Appunti storici intorno alle ricerche sui piccoli e spontanei moti dei pendoli fatte dal secolo XVII in poi (1873)
Timoteo Bertelli in questo opuscolo pubblicato nel 1873 ha il merito di raccogliere ed esporre in ordine cronologico i diversi studi compiuti sul moto del pendolo a partire dal XVII secolo. Viene naturalmente citato più volte l’esperimento di Foucault, del quale viene riconosciuta l’importanza, pur se Bertelli segnala che già in precedenza erano state realizzate esperienze simili rimaste nell’ombra. Cita in particolare (p. 22-23) il P. Agostino Bartolini, Minore Osservante, che più volte aveva realizzato esperienze capaci di dimostrare quanto sarebbe poi stato reso pubblico da Foucault.   «Egli aveva in animo di pubblicare il suo trovato nei giornali, ma se ne astenne piegandosi al consiglio di un suo correligioso, il quale per soverchio riservo lo consigliò di lasciare che intanto altri, a maggior conferma della medesima, ripetesse la stessa prova» (ivi, p. 22).   Se è vero quanto dice Bertelli - che nelle righe successive porta una lettera a dimostrazione di ciò - Bartolini perse la sua occasione di ritagliarsi un posto nella storia della scienza. Il titolo focalizza l’attenzione sul motivo per cui utilizzare il pendolo per dimostrare il moto terrestre era complicato, tanto che Foucault era stato spesso snobbato quando aveva affermato di volere realizzare l’esperimento poi divenuto famoso: ogni minimo movimento innaturale infatti può modificare l’ondulazione dell’oggetto e compromettere la riuscita della prova. I “diabolici”, maestri nel mescolare scienza e magia, per muovere il pendolo durante il rito magico nel Conservatoire, utilizzano «un prestidigitatore, un illusionista del Petit Cirque di Madame Olcott, un professionista capace di dosare la pressione dei polpastrelli, dal polso sicuro, abile a lavorare sugli scarti infinitesimali. Forse era capace di percepire, con la suola sottile delle sue scarpe lucide, le vibrazioni delle correnti, e di muovere le mani secondo la logica della sfera, e della terra a cui la sfera rispondeva» (cap. 113, p. 461).   Timoteo Bertelli, Appunti storici intorno alle ricerche sui piccoli e spontanei moti dei pendoli fatte dal secolo XVII in poi, Roma, Tipografia delle scienze matematiche e fisiche, 1873. Collocazione: 11-FISICA VULCANI TER. 03, 06
immagine di Giovanni Paltrinieri, Il pendolo di Foucault nella basilica di San Petronio (2009)
Giovanni Paltrinieri, Il pendolo di Foucault nella basilica di San Petronio (2009)
Anche Bologna ha il suo pendolo. Si trova nella basilica di San Petronio, all’interno della cappella di San Michele Arcangelo. Venne installato nel 2005 da Federico Zucchelli, che preparò anche un modellino più piccolo a scopo didattico. Sotto il pendolo bolognese non si trova sabbia (essendo il pendolo sempre in moto, sarebbe impossibile leggere nella sabbia il mutamento del piano di oscillazione) ma un ripiano che permette di cogliere il movimento. L’opuscolo da cui è tratta questa immagine, oltre a ricordare l’occasione e le motivazioni per cui venne installato il pendolo in San Petronio, ne spiega il funzionamento e ricostruisce, pur se in poche pagine, i momenti salienti che portarono all’esperimento di Foucault e ad altri successivi. Attualmente il pendolo bolognese è smontato perché la cappella che lo ospita è sottoposta a lavori di restauro.   Giovanni Paltrinieri, Il pendolo di Foucault nella basilica di San Petronio, Bologna, Basilica di San Petronio, 2009. Collocazione: MISC. B. 2493
immagine di Pietro Mainardi, Opusculum raymundinum de auditu kabbalistico (1518)
Pietro Mainardi, Opusculum raymundinum de auditu kabbalistico (1518)
Il pendolo di Foucault è un romanzo in cui l’aspetto tecnologico finisce programmaticamente per intrecciarsi con quello magico-esoterico, secondo le abitudini dei diversi gruppi di “diabolici” incontrati dai protagonisti e portando avanti - per criticarle - le modalità di ragionamento e comportamento delle diverse sette, logge, gruppi segreti di cui si scopre l’esistenza nel passato come nel presente. Finora ci siamo attenuti a oggetti tecnologici, è venuto il momento di osservare l’altro campo d’azione del romanzo. La Qabbalah ebraica era entrata in questo “grande gioco” di fraintendimento e banalizzazione fin dai secoli medioevali. Senza entrare nel dettaglio dell’argomento, proponiamo un’opera erroneamente attribuita a Raimondo Lullo - già incontrato ne Il nome della rosa e anche nei romanzi di Evangelisti come antagonista di Eymerich - ma scritta invece da Pietro Mainardi (sulla questione dell’attribuzione e per un’analisi approfondita si veda Paola Zambelli, Il «De auditu kabbalistico» e la tradizione lulliana nel Rinascimento, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria», XXX (n.s. XIV), 1965, p. 113-247). Il testo è stato erroneamente attribuito a Lullo in quanto maestro di quell’arte combinatoria per la quale è ricordato anche nel Pendolo (cap. 88, p. 371). Sfogliando anche solo le poche pagine che riproducono le figure presenti nel testo - e adottando la mentalità dei “diabolici” (e del trio Belbo-Casaubon-Diotallevi che gioca a costruire il Piano) - è facile capire che si prestano a suggerire una catena di ragionamenti pseudo-logici capaci di creare una dimensione magico-esoterica. Fra le varie pagine proposte si possono vedere combinazioni di lettere che ricordano sia i procedimenti della Qabbalah ebraica più volte ricordati da Diotallevi, sia i tentativi di Casaubon di scovare la password di Abulafia - l’oggetto che più di tutti riunisce in sé tecnologia e magia - sia, infine, le combinazioni di versi che Balestrini e il suo calcolatore analizzano in Tape Mark I. Queste ruote con lettere - che rimandano anche alle rotule tratte dal Clavis Steganographiae di Tritemio con cui Eco illustra due passaggi del romanzo (cap. 19, p. 110 e cap. 106, p. 423) - erano un oggetto capace di generare combinazioni alfabetiche come Abulafia. Dovevano infatti essere ritagliate e “montate” in modo da formare tre cerchi concentrici (come in questo esempio relativo a un’opera di Lullo) che ruotando davano origine a numerose combinazioni di lettere, secondo le istruzioni fornite nelle pagine del testo. Su questi temi si veda Umberto Eco, Cabalismo, lullismo, scritture segrete.   Pietro Mainardi, Opusculum raymundinum de auditu kabbalistico, Venezia, Bernardino Vitali, 1518. Collocazione: 9. OO. I. 18
immagine di «L’oracolo. Ossia la cabala parlante. Giornale» (1818)
«L’oracolo. Ossia la cabala parlante. Giornale» (1818)
Questa ricerca vuole essere anche un esempio di quello che si racconta nel romanzo, cioè che ogni argomento o evento può essere studiato e trattato in maniera seria e scientifica oppure superficiale e spregiudicata, alla ricerca del semplice effetto o di significati nascosti inesistenti. Cioè, per rimanere nella trama del Pendolo, da tutto si può trarre un libro per la Garamond o un libro per la Manuzio. Quest’operetta ci offre la possibilità di vedere come un argomento di grande importanza come la Qabbalah ebraica - che già avevamo incontrato nell’opera di Mainardi nella sua versione magico-esoterica dell’ars combinatoria rinascimentale - può diventare un banale espediente per giocare al lotto o divertire, durante una serata in società, un’ingenua Damina che crede sia possibile prevedere il futuro. L’anonimo autore costruisce la sua Cabala parlante che - tramite giochi combinatori di numeri che parodizzano, senza consapevolezza, i procedimenti degli studiosi di Qabbalah ebraica - può fornire alla Damina l’oroscopo dell’anno 1818. L’opuscolo si presenta come periodico, quindi come pubblicazione che presuppone ulteriori uscite secondo una scansione temporale più o meno rigida, in questo caso si presuppone annualmente. Un tipo di pubblicazione che forniva indicazioni per l’anno entrante - e che nel corso dei secoli da strumento semplicemente informativo su feste, cicli stagionali e eventi importanti divenne sempre più anche un contenitore di elementi di divertimento e ludici - sono i lunari. In occasione dell’edizione 2025 di Archivissima. Il Festival degli Archivi, l’Archiginnasio ha preparato un video di presentazione della propria collezione di lunari, Memoria del tempo e delle stelle: i lunari dell'Archiginnasio, che copre un ampio arco cronologico, dal 1690 al 1928.   «L’oracolo. Ossia la cabala parlante. Giornale» Collocazione: 17-SC.LETT.ALMANACCHI 11,5
immagine di Casaubon (e Eco) in Brasile
Casaubon (e Eco) in Brasile
Prima di aprire una lunga sezione dedicata ai Templari, copiamo la struttura del romanzo inserendo una digressione in terra brasiliana. La parentesi sudamericana della storia - che copre qualche anno e durante la quale il protagonista e la fidanzata Amparo incontrano Agliè e si appassionano alla vicenda dei Rosacroce - è stata molto criticata sia dai lettori, che spesso l’hanno giudicata un’inutile digressione, sia dai critici. Asor Rosa la giudica come «la parte che, narrativamente, mi persuade di meno». Eco la giudica invece «fondamentale» non solo perché gli permette di allontanare Casaubon dall’Italia dal 1968 al 1983 - quindi di comprendere nella trama sia la rivoluzione studentesca che l’affermarsi dell’uso del computer - ma soprattutto perché gli offre l’occasione di «far accadere in Brasile e ad Amparo, in forma contratta, quel che accadrà agli altri personaggi nel corso del libro» (Umberto Eco, Come scrivo, in Id., Sulla letteratura, p. 342-379: 367). Eco dice di scegliere il Brasile perché lo conosce bene avendoci passato alcuni periodi. Entra maggiormente nei dettagli durante il colloquio con Thomas Stauder, che gli ricorda due saggi «nei quali lei parlava già dei pericoli dell’esoterismo allo stesso modo in cui più tardi lo avrebbe fatto nel Pendolo» (Thomas Stauder, Colloqui con Umberto Eco, p. 70), pubblicati in Sette anni di desiderio (i titoli dei saggi sono Con chi stanno gli Orixà?, p. 22-29, e Ci rimane l’occulto, p 48-52). Eco risponde aggiungendo un ulteriore riferimento:   «Probabilmente non ha trovato l’articolo sull’Espresso del 1963 - che non è mai stato ripubblicato in un libro - in cui raccontavo la storia di una ragazza alla quale succede esattamente quello che succede ad Amparo. Cioè la storia di Amparo, marxista, atea, che poi cade in trance, è successa veramente. Non era la mia ragazza, era una pittrice nera che avevo conosciuto e che quella sera portò me, uno psicanalista inglese e un fisico nucleare a vedere quel rito, e poi c’è caduta». (Thomas Stauder, Colloqui con Umberto Eco, p. 70)   Poche righe dopo Eco ribadisce di avere raccontato quella storia «dopo un viaggio in Brasile nel ‘63 in un articolo sull’Espresso, quando il giornale era ancora in grande formato, e poi non ne ho mai più parlato» (ibidem). Eco però si confonde, almeno in parte. Su «L’Espresso» del 1963 infatti non c’è traccia dell’articolo. Dopo avere trovato l’informazione che il professore aveva passato alcuni mesi in Brasile nel 1966 per impegni accademici, abbiamo sfogliato i fascicoli di quell’anno - il periodico «era ancora in grande formato» anche nel 1966 - e nel numero del 30 ottobre ecco l’articolo a cui Eco fa riferimento, intitolato Lo stregone apre a sinistra, che riporta esattamente l’episodio narrato a Stauder. Un altro articolo sul Brasile, Domenica rivoluzione, era già comparso sul numero della settimana precedente. L’equivoco sull’anno di pubblicazione dell’articolo “brasiliano” è presente anche in altre versioni del dialogo fra Stauder e Eco, sia nella più recente edizione tedesca del libro, Gesprache mit Umberto Eco aus drei Jahrzehnten, sia nella prima pubblicazione del colloquio sul Pendolo in «Il lettore di provincia» (XXI, 1989, n. 75, p. 3-11). Sulla stessa rivista Stauder pubblica anche un altro articolo dedicato al romanzo, dal titolo Il Pendolo di Foucault: l’autobiografia segreta di Umberto Eco (XXIII, 1991, n. 80, p. 3-21).   Umberto Eco, Lo stregone apre a sinistra, «L’Espresso», XII, 30 ottobre 1966, p. 20-21. Collocazione: 19/411
immagine di Bernardo da Chiaravalle, sostenitore dei Templari
Bernardo da Chiaravalle, sostenitore dei Templari
E finalmente i Templari. Perché è da loro che la trama del romanzo prende avvio. Dal misterioso messaggio scovato in Francia dal colonnello Ardenti e interpretato come la chiave per comprendere il piano segreto grazie al quale i Cavalieri del Tempio - e tutte le logge e le sette più o meno segrete che a essi si sono ispirate dopo la soppressione dell’Ordine a inizio XIV secolo - pensano di conquistare il dominio del mondo. Il tema continua a interessare Eco anche ben dopo la pubblicazione del Pendolo, dal momento che il 23 agosto 2001 pubblica una Bustina in cui, senza citare il suo romanzo, lo richiama in maniera esplicita nel brano evidenziato. Ma partiamo dall’inizio, con una incisione rappresentante San Bernardo, che se non fu il fondatore dell’Ordine «intuisce subito che l'idea è da coltivare, e appoggia quei nove avventurieri, trasformandoli in una Militia Christi, diciamo pure che i Templari, nella loro versione eroica, li inventa lui» (cap. 13, p. 72). Chi parla è Casaubon, che durante la prima parte del Pendolo sta dedicando ai Templari i propri studi per la redazione della tesi di laurea. Sarà lui stesso che anni dopo, quando il Piano sarà quasi completo, ipotizzerà che l’appoggio del santo all’ordine avesse secondo fini segreti e misteriosi, in quanto Bernardo era un iniziato (cap. 74, p. 331).   Bernardo da Chiaravalle, Sermoni volgari del diuoto dottore santo Bernardo: sopra le solennitade di tutto lanno, Venezia, Giovanni Antonio & fratelli Nicolini da Sabbio, 1528. Collocazione: 2. I. I. 06
immagine di Francesco Sansovino, Della origine de'  Cavalieri (1584)
Francesco Sansovino, Della origine de' Cavalieri (1584)
L’opera di Sansovino contiene notizie storiche e documenti ufficiali relativi agli ordini cavallereschi istituiti fino al momento in cui venne scritto. Ci sono i Cavalieri del Tempio, naturalmente, ma anche altri ordini più volte citati nel Pendolo, come per esempio l’ordine del Toson d’oro e quello della Giarrettiera, che «appaiono anche sulle colonne di Tomar» (cap. 71, p. 318) e quindi si conquistano di diritto uno spazio nel Piano segreto di Casaubon, Belbo e Diotallevi.   Francesco Sansovino, Della origine de' Cavalieri, Venezia, Altobello Salicato, 1583. Collocazione: 1. X. VI. 24 op. 1  
immagine di Iohannes Tritheim, Steganographia (1606)
Iohannes Tritheim, Steganographia (1606)
La Steganographia di Tritemio è il testo che offre al colonnello Ardenti la chiave per interpretare il presunto messggio dei Templari trovato a Provins:   «"Non è perspicuo," osservò Belbo. "No, vero?" acconsentì con malizia il colonnello. "E ci avrei perso la vita sopra se un giorno, quasi per caso, non avessi trovato su una bancarella un libro su Tritemio e non mi fossero caduti gli occhi su uno dei suoi messaggi in cifra: `Patnersiel Qshurmy Delmuson Thafloyn....' Avevo trovato una traccia, e la seguii sino in fondo. Tritemio per me era uno sconosciuto, ma a Parigi ritrovai un'edizione della sua Steganographia, hoc est ars per occultam scripturam animi sui voluntatem absentibus aperiendi certa, Francoforte 1606. L'arte di aprire attraverso occulta scrittura il proprio animo alle persone lontane. Personaggio affascinante, questo Tritemio”» (cap. 19, p. 109).   Abbiamo già riferito che Eco inserisce nel romanzo le illustrazioni di due rotule di Tritemio, tratte dall’opera Clavis Steganographiae, che completa la Steganographia e permette di decifrare messaggi criptati. Lia, la fidanzata di Casaubon simbolo del buonsenso e della razionalità, nel capitolo 106 dà del messaggio di Provins un’interpretazione ben diversa, mostrando che si tratta di un semplice documento relativo ad alcuni commerci effettuati in quella cittadina.   Iohannes Tritheim, Steganographia, hoc est ars per occultam scripturam animi sui voluntatem absentibus aperiendi certa, Francoforte, Ioannis Berneri, 1606. Collocazione: 11. dd. II. 18
immagine di Jules Loiseleur, I segreti dei Templari (2017)
Jules Loiseleur, I segreti dei Templari (2017)
Nell’impossibilità di citare anche solo parzialmente l’imponente bibliografia dedicata ai Templari, vogliamo citare quest’opera del bibliotecario francese Jules Loiseleur perché venne segnalata come meritevole e interessante all’editore Odoya da Valerio Evangelisti.  L’edizione originale del 1872, La doctrine secrète des Templiers, è integralmente consultabile online. Come si può notare in questo estratto, l’edizione italiana moderna aggiunge immagini al testo. Vale la pena anche proporre alcuni elementi del paratesto per avere informazioni sull’autore e valutare l’indice, secondo l’indicazione della già citata Bustina. In quarta di copertina viene riportata la frase con cui Casaubon conclude la sua lunga esposizione della storia dei Templari nella prima parte del romanzo: «"E forse erano tutto questo, anime perse e anime sante, cavallanti e cavalieri, banchieri ed eroi..."» (cap. 13, p. 81).   Jules Loiseleur, I segreti dei Templari, Bologna, Odoya, 2017. Collocazione: ARPE-BO A. 4122  
immagine di Girolamo Maria Marini, Otto Nicolai, Il Templario (1849)
Girolamo Maria Marini, Otto Nicolai, Il Templario (1849)
La storia dei Templari ha sempre esercitato nei secoli quel fascino popolare che, come spesso abbiamo notato leggendo Eco - si pensi all’importanza dei feuilletons ne Il cimitero di Praga - fa sì che gli eventi storici diventino testi di fiction. Qui e nell’immagine successiva vediamo due testi teatrali dedicati ai Cavalieri del Tempio, rappresentati a Bologna nella seconda metà del XIX secolo.   Gerolmo Maria Marini (parole), Otto Nicolai (musica), Il Templario. Melodramma in tre atti da rappresentarsi nel Teatro Comunitativo di Bologna l'autunno del 1849, [Bologna], pei tipi delle belle arti, [1849]. Collocazione: 17-ARTISTICA Gd 03, 40
immagine di Luigi Illica, Gli ultimi templari (1886)
Luigi Illica, Gli ultimi templari (1886)
Cliccare qui per vedere il manifesto a una migliore risoluzione.   Venerdi 17 dicembre 1886 alle ore 8 1/4 pom. la Drammatica Compagnia diretta dagli artisti Teresa Boetti-Valvassura e Antonio Zerri replica a richiesta Gli ultimi templari ... commedia in 5 atti, nuovissima, Bologna, Stab. Tip. Succ. Monti, 1886, 1 manifesto, 34x16 cm Collocazione: 17-ARTISTICA Gf 02, 10 Op. 88
immagine di Giampiero Bagni, Templari a Bologna (2012)
Giampiero Bagni, Templari a Bologna (2012)
I Templari erano presenti a Bologna e questo libro ne ricostruisce la storia cittadina, compresi gli eventi legati al processo che portarono alla soppressione dell’ordine nel 1312. In un articolo preparatorio a questo libro, pubblicato da Bagni nel 2010 sulla rivista «Il Carrobbio» (XXXVI, 2010, p. 33-44) e intitolato Templari a Bologna. Identificazione precisa dei luoghi e dei personaggi coinvolti nel locale processo attraverso anche nuove fonti coeve (1309), si trovano due mappe. La prima mostra i possedimenti dei Templari in città, la seconda nel territorio circostante.   Giampiero Bagni, Templari a Bologna. Sulle tracce di frate Pietro, Tuscania, Penne & Papiri, 2012. Collocazione: 17* AA. 3356
immagine di Morena Poltronieri, Ernesto Fazioli, I Templari e il mistero del Graal. I luoghi magici di Bologna (2018)
Morena Poltronieri, Ernesto Fazioli, I Templari e il mistero del Graal. I luoghi magici di Bologna (2018)
Fingiamo di essere all’interno de Il pendolo di Foucault, di ritrovarci nei panni di Jacopo Belbo e di dovere valutare due manoscritti per una eventuale pubblicazione. Se il libro precedente poteva trovare posto fra le pubblicazioni della Garamond, quello di cui vediamo qui la copertina sarebbe stato un serio candidato per la collana Iside svelata della Manuzio. I motivi possono essere intuiti anche solo leggendo la quarta di copertina che, oltre a presentare un fastidioso refuso («Gli stessi stessi autori») potrebbe essere stata scritta da uno dei tanto “diabolici” con cui si ritrova ad avere a che fare Belbo. L’associazione Mutus Liber citata nella quarta di copertina, a cui fanno capo gli autori, è un riferimento a quel «Liber Mutus, dello Pseudo-Lullo» che è uno dei primi testi consultati da Casaubon quando riceve dal signor Garamond l’incarico di confezionare «Una storia illustrata delle scienze magiche ed ermetiche» (cap. 64, p. 293). La quarta di copertina presenta anche un refuso    Morena Poltronieri, Ernesto Fazioli, I Templari e il mistero del Graal. I luoghi magici di Bologna, 2. ed., Riola, Mutus Liber, 2018. Collocazione: 17* AA. 4351
immagine di La Chiesa di Santa Maria del Tempio o della Magione
La Chiesa di Santa Maria del Tempio o della Magione
Il più importante possedimento dei Templari a Bologna era la Chiesa di Santa Maria del Tempio o della Magione, situata lungo Strada Maggiore all’angolo con via Malgrado. Dopo il 1312 «passò all’ordine dei cavalieri di San Giovanni Gerosolimitano, i quali vi costruirono accanto un ospedale per l’accoglienza dei pellegrini. Fu elevata a parrocchia ma in seguito fu assorbita dalla vicina chiesa di Santa Caterina di Strada Maggiore [...]. Dopo la soppressione dell’ordine gerosolimitano nel 1799, la chiesa fu chiusa al culto nel 1806 e quindi venduta a privati pochi anni dopo» (Marcello Fini, Bologna sacra. Tutte le chiese in due millenni di storia, p. 132). L’immagine mostra il sito in cui si trovava la chiesa sulla Pianta prospettiva della città di Bologna che fu dipinta nel 1575 nella Sala Bologna del Palazzo Apostolico Vaticano per volontà di papa Gregorio XIII (che incontreremo di nuovo in questa gallery), riprodotta in una fotografia all’albumina scattata nel 1885 dopo il restauro dell’affresco.   Pianta prospettiva della città di Bologna nell'anno MDLXXV già fatta dipingere da papa Gregorio XIII nel palazzo Vaticano, e per munificenza di N. S. papa Leone XIII rimessa in luce nell'anno MDCCCLXXXIV, 1885, albumina, 548x740 mm Collocazione: GDS, Raccolta piante e vedute della città di Bologna, cart. 1, n. 3    
immagine di La Torre della Magione
La Torre della Magione
Questa è la torre campanaria della chiesa di Santa Maria del Tempio, detta Torre della Magione, che ebbe una storia particolare.   «La chiesa della Magione è ricordata soprattutto per l’incredibile spostamento del suo campanile, la torre della Magione appunto, compiuto il 12 agosto 1455 da Aristotele Fioravanti: la torre, alta circa 20 metri, si trovava proprio in mezzo all’attuale Strada Maggiore, per cui impediva il passaggio e ostruiva la visione della porta cittadina che si apriva lungo le mura. Fioravanti ne spostò la base di circa 35 piedi, fino a portarla in prossimità della chiesa, facendola rotolare su un sistema da lui studiato fatto di cilindri di legno di rovere cerchiati di ferro. La torre fu atterrata nel 1825 dal proprietario che la acquistò dopo la soppressione ed ora la sua antica presenza è ricordata solo da una targa». (Marcello Fini, Bologna sacra, p. 132)   La vicenda incuriosisce anche solo su un piano strettamente storico, considerando che, lo vedremo, pure l’atterramento del 1825 offre elementi di discussione. Ma se proviamo, di nuovo, a metterci nei panni dei protagonisti del Pendolo che inventano il Piano - o dei “diabolici” che lo prendono per vero - questa storia acquista anche il fascino del mistero. Nella parte finale del romanzo infatti Casaubon e Belbo, ormai incapaci di fermare la deriva presa dal loro gioco di correlazioni, iniziano a sottolineare l’importanza di una serie di costruzioni verticali che, nel corso dei secoli, i diversi gruppi che continuavano in segreto l’opera dei Templari avevano piantato sulla crosta terrestre, per convogliare le correnti telluriche verso il cielo:   «Infatti che cosa aveva fermato i Templari una volta colto il segreto? Dovevano sfruttarlo. Ma tra il sapere e il saper fare, ce ne corre. Per intanto, istruiti dal diabolico san Bernardo, i Templari avevano sostituito ai menhir, poveri spinotti celtici, le cattedrali gotiche, ben più sensibili e potenti, con le loro cripte sotterranee abitate dalle vergini nere, in diretto contatto con le falde radioattive, e avevano coperto l'Europa di un reticolo di stazioni ricetrasmíttenti che si comunicavano a vicenda le potenze e le direzioni dei fluidi, gli umori e le tensioni delle correnti» (cap. 82, p. 357).   Finché Belbo, in una notte d’insonnia, ha la rivelazione finale: l’approdo ultimo di questo slancio in verticale era stata la Tour Eiffel, «la sonda celeste, l'antenna che raccoglie informazioni da tutti gli spinotti ermetici infissi sulla crosta del globo, dalle statue dell'Isola di Pasqua, dal Machu Picchu, dalla Libertà di Staten Island, voluta dall'iniziato Lafayette, dall'obelisco di Luxor, dalla torre più alta di Tomar, dal Colosso di Rodi che continua a trasmettere dal profondo del porto dove non lo trova più nessuno, dai templi della giungla brahmanica, dalle torrette della Grande Muraglia, dalla cima di Ayers Rock, dalle guglie di Strasburgo su cui si deliziava l'iniziato Goethe, dai volti di Mount Rushmore, quante cose aveva capito l'iniziato Hitchkock, dall'antenna dell'Empire State, dite voi a che impero alludesse questa creazione di iniziati americani se non all'impero di Rodolfo di Praga! La Tour capta informazioni dal sottosuolo e le confronta con quelle che le provengono dal cielo» (cap. 86, p. 366). La Tour Eiffel che compare sulla copertina della prima edizione del romanzo e che in altre edizioni - compresa l’ultima, edita nel 2018 - viene sostituita da una veduta di Parigi in cui la torre è decentrata e allontanata, mentre in primo piano compaiono elementi chiaramente riconducibili alle cattedrali gotiche prima citate. Ragionando secondo la logica deviata dei “diabolici”, le torri di Bologna, città turrita per eccellenza, potrebbero entrare perfettamente in questa rete. E una torre templare che, in pieno XV secolo, viene spostata di qualche metro con un’operazione ingegneristica che lascia stupefatti ancora oggi, quanti significati esoterici potrebbe nascondere? Se Belbo avesse conosciuto la storia della torre della Magione, siamo certi che avrebbe imbastito una brillante narrazione in cui un gruppo di iniziati, guidati dall’architetto Fioravanti, aveva scoperto che la comunicazione terra-cielo funzionava meglio 35 piedi più in là. Ma, come abbiamo anticipato, anche l’atterramento della torre offre la sua dose di mistero, che raccontiamo nell’immagine successiva.   Torre della magione in Bologna. Era alta P.65.6P.13 di Fondamento... atterrata nel 1825, [Italia, s.n., 1825], 1 stampa, acqf., 165x112 mm Collocazione: AA. VV. Cart. XXXVI 108
immagine di L'abbattimento della torre della Magione
L'abbattimento della torre della Magione
L’abbattimento della torre nel 1825 fu deciso, fra grandi contestazioni, da Luigi Aldini, nuovo proprietario del complesso della Magione, perché convinto di trovare, nelle fondamenta, un tesoro. Nel Pendolo il colonnello Ardenti si reca alla Garamond raccontando «una storia [...] fantasiosa, su un presunto tesoro dei Templari» (cap. 21, p. 123): un altro elemento che ci conferma che la storia della torre della Magione sarebbe potuta entrare nel Piano, se solo fosse stata conosciuta dai personaggi del romanzo. Aldini fu molto contrariato non solo dal non avere trovato alcun tesoro sotto la torre abbattuta, ma anche dalle aspre critiche che molti gli riservarono per la decisione di cancellare un edificio che testimoniava un evento importante e stupefacente come lo spostamento di 35 piedi del 1455. Per contro, lui contestò che questo fosse mai avvenuto e per averne prova fece convocare «tre architetti Tubertini, Santini e Gasparini [...] che fecero la visita sul finir del settembre 1825, e cioè osservarono se la costruzione del fondamento era della data dei muri della torre» (Giuseppe Guidicini, Cose notabili della città di Bologna. Vol. 3, p. 13). La commissione di esperti non arrivò a una decisione unanime, ma l’episodio testimonia, insieme ad altri documenti che andiamo a vedere nelle prossime immagini, l’interesse destato in città dall’abbattimento della torre. La trascrizione delle pagine che Guidicini dedica al complesso della Magione (e anche le testimonianze di altre opere a esso dedicate) possono essere lette integralmente sul sito Origine di Bologna. Vie, strade, vicoli, piazze, luoghi di Bologna. Questa immagine invece è tratta dal volume pubblicato nel 2000 che raccoglie gli schizzi topografici preparati dal Guidicini per scrivere la sua opera, fino ad allora inediti.   Giuseppe Guidicini, Gli schizzi topografici originali di Giuseppe Guidicini per le Cose notabili della città di Bologna, a cura di Mario Fanti, Bologna, A. Forni, 2000. Collocazione: 17* CC. 405    
immagine di Ercole Gasparini, «Torre della Magione» (prima metà sec. XIX)
Ercole Gasparini, «Torre della Magione» (prima metà sec. XIX)
L’Archiginnasio possiede tre disegni relativi alla torre della Magione dell’architetto Ercole Gasparini (1771-1829), uno dei tre esperti che nel settembre del 1825 vennero convocati per un parere sullo spostamento della torre. I disegni vennero con molta probabilità realizzati proprio in quell’occasione. I tre architetti dovevano dire se, secondo loro, l’epoca di costruzione dei muri della torre corrispondeva o meno a quella del fondamento. Gasparini «asserì che eran di due date diverse» (Giuseppe Guidicini, Cose notabili della città di Bologna. Vol. 3, p. 13). In questo disegno, il cui titolo si ricava da una scritta sul retro, viene rappresentato il sistema di trascinamento con cui nel 1455 la torre venne spostata. In basso a destra si trova la scritta «Tav. III». Come indicato nella tesi di laurea dedicata a Gasparini redatta da Valentina Begliossi (relatrice prof. Deanna Lenzi) - che analizza l’opera dell’architetto e in particolare i suoi numerosi disegni conservati presso la nostra biblioteca - le Tav. I e II di questo trittico sono i due disegni che vediamo nella prossima immagine. Anche se non indicato in maniera esplicita, grazie al collegamento fra questi disegni e al confronto con le immagini viste in precedenza, possiamo affermare che si tratta di due diverse sezioni della torre della Magione. L’architetto Piero Canova, da noi interpellato, ha utilizzato i tre disegni di Gasparini per una ricostruzione 3D delle operazioni di spostamento della torre, che ci offre la possibilità di comprendere meglio come si presentasse l’apparato utilizzato per portare a termine il lavoro (si vedano ulteriori immagini realizzate durante questo lavoro di ricostruzione). Ringraziamo l’architetto Canova per la grande disponibilità con cui ha risposto alla nostra richiesta.    Ercole Gasparini, «Torre della Magione», prima metà sec. XIX, disegno a penna con inchiostro bruno e tracce di matita grigia su carta avorio, 433x578 mm Collocazione: GDS, Disegni di autori vari, Cart. 3, n.672
immagine di Ercole Gasparini, Sezioni di torre campanaria (prima metà sec. XIX)
Ercole Gasparini, Sezioni di torre campanaria (prima metà sec. XIX)
Ercole Gasparini, «Sezioni di torre campanaria», prima metà sec. XIX, disegni a penna con inchiostro bruno e tracce di matita grigia su carta avorio.   A sinistra Collocazione: GDS, Disegni di autori vari, Cart. 2, n.594 (430 x 319 mm)   A destra Collocazione: GDS, Disegni di autori vari, Cart. 2, n.595 (427 x 323 mm)
immagine di Camillo Marescalchi, Memorie risguardanti il commendatore Achille Malvezzi (1825)
Camillo Marescalchi, Memorie risguardanti il commendatore Achille Malvezzi (1825)
Nel 1825 ci fu chi provò a contrastare la decisione di abbattere la torre. In questo opuscolo, uscito nell’imminenza dell’evento, Camillo Marescalchi ricostruisce la vicenda dello stupefacente spostamento della torre voluto da Achille Malvezzi, al quale nel 1455 era assegnata in commenda la chiesa, e realizzato da Aristotele Fioravanti, detto mastro Ridolfo. L’antiporta presenta la stessa illustrazione conservata dall’Archiginnasio come stampa sciolta che abbiamo visto all’immagine n. 42 di questa gallery. Sulla copertina di questo esemplare invece (integralmente consultabile online) troviamo questa nota manoscritta: «Camillo Marescalchi ed il dott.r notajo Gioseffo Maria Schiassi scrissero per impedire la demolizione della memorabil Torre».   Camillo Marescalchi, Memorie risguardanti il commendatore Achille Malvezzi, mastro Ridolfo detto Aristotele Fioravante e quanto ebbe luogo nel trasporto della torre detta della Magione seguito in Bologna l'anno MCCCCLV non che nel suo atterramento occorso nel MDCCCCXXV, Modena, per Geminiano Vincenzi e compagno, 1825. Collocazione: 5-BIOGRAF. ELOGI F. 07, 57
immagine di Dialogo fra la torre Asinelli e la torre della Magione (1825)
Dialogo fra la torre Asinelli e la torre della Magione (1825)
Anche sul dialogo fra due torri forse Belbo avrebbe potuto costruire una narrazione interessante e inserirla all’interno del Piano. Noi ci limitiamo a segnalare questa curiosa opera, integralmente consultabile online, anch’essa uscita nell’imminenza dell’atterramento.   Girolamo Bianconi, Dialogo fra la torre Asinelli e la torre della Magione in occasione che questa viene demolita. Con note istoriche, Modena, per G. Vincenzi e compagno, 1825. Collocazione: 17-ARTISTICA C 02, 31
immagine di Dialogo fra la torre Asinelli e la torre della Magione (1825)
Dialogo fra la torre Asinelli e la torre della Magione (1825)
Sulla controguardia posteriore di un esemplare dell’opuscolo visto in precedenza si trova manoscritto il testo della lapide posta sul luogo dove sorgeva la torre in un anno non conosciuto. Nella pagina del sito Storia e memoria di Bologna intitolata Il trasporto della torre della Magione, il “Comitato per Bologna Storica e Artistica” spiega anche perché la rivista pubblicata dal 1974 per i soci ha come titolo proprio «La Torre della Magione».   Girolamo Bianconi, Dialogo fra la torre Asinelli e la torre della Magione in occasione che questa viene demolita. Con note istoriche, Modena, per G. Vincenzi e compagno, 1825. Collocazione: 17-ARTISTICA C 02, 31
immagine di Giovanni Battista Gugliemini, De diurno terrae motu experimentis physico-mathematicis confirmato opusculum (1792)
Giovanni Battista Gugliemini, De diurno terrae motu experimentis physico-mathematicis confirmato opusculum (1792)
Nel grande gioco dlle relazioni che informano la nostra versione bolognese del Piano, non poteva rimanere fuori la Torre degli Asinelli che abbiamo appena visto in dialogo con l’edificio dei Templari. La più importante torre di Bologna, infatti, alla fine del XVIII secolo fu sede di alcuni esperimenti di Giovanni Battista Guglielmini. L’abate-scienziato «fece cadere alcuni gravi dalla Torre degli Asinelli, alta 74 metri, trovando una deviazione media di 18,89 millimetri verso est, compatibile con l’ipotesi della rotazione terrestre; ma il risultato fu disturbato, ancora una volta, da una leggera deviazione verso sud» (Amir D. Aczel, Pendulum. Léon Foucault e il trionfo della scienza, p. 38). Guglielmini fu quindi uno dei tanti predecessori di Foucault che per qualche piccolo dettaglio non riuscirono a dimostrare in maniera inequivocabile la rotazione terrestre. Nella prefazione di questo opuscolo (consultabile online, in particolare p. 6-7) viene spiegata la scelta della torre come luogo idoneo a mettere in atto l’esperimento di caduta dei gravi. Le prove sperimentali erano state precedute da uno studio teorico che l’abate Guglielmini aveva dedicato al cardinal Ignazio Boncompagni (anche questo consultabile online).    
immagine di Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, Il santo Graal (1982)
Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, Il santo Graal (1982)
Il Graal è l’oggetto religioso e magico per eccellenza. Eco lo metterà al centro della narrazione in Baudolino, ma la sua presenza aleggia anche nel Pendolo, in quanto lo si disse a lungo custodito dai Templari. Belbo però ne trova traccia anche fra le novità editoriali perché il fascino del Graal arriva fino al mondo contemporaneo e diventa bestseller: questo libro - nato da alcuni documentari realizzati in Francia e quindi spinto dal successo in TV - vende «alcune centinaia di migliaia di copie» (cap. 66, p. 300) all’inizio degli anni Ottanta, spacciando come possibile verità storica la storia inverosimile di un Gesù che non fu mai crocifisso ma si sposò con Maria Maddalena, sbarcò in Francia e fu capostipite della casa reale di quel paese (si veda la quarta di copertina). Un paio di decenni dopo questa storia andrà a formare «la dorsale narrativa de Il codice Da Vinci» (Mariano Tomatis, Scritto al computer, dunque falso? Da Eco a Xun, la rivincita degli inganni generativi).   Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, Il Santo Graal, Milano, A. Mondadori, 1982. Collocazione: 35. A. 5803      
immagine di Johann Valentin Andreae, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1997)
Johann Valentin Andreae, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1997)
Casaubon inizia ad appassionarsi alla storia dei Rosa-Croce, che dopo i Templari è sicuramente il gruppo che più affascina i tre redattori della Garamond, durante la sua permanenza in Brasile. I rosacrociani offrono ancora più mistero dei Cavalieri del Tempio: se qualcuno dichiara di essere rosacrociano di certo mente - un vero rosacrociano non si svelerebbe mai - ma chi afferma di non avere nulla a che fare con questo gruppo di iniziati è immediatamente sospettato di farne parte e di volere mantenere il segreto. Il mistero sulle loro origini è la loro cifra distintiva, tanto che non è possibile stabilire se esista davvero un gruppo originario di adepti o se si tratti di una montatura che si autoalimenta proprio del fascino del segreto. Fra le poche certezze c’è il fatto che Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, pubblicato nel 1616 in forma anonima ma attribuito a Johann Valentin Andreae, è stata una delle opere che più ha contribuito alla nascita della loro leggenda.   Johann Valentin Andreae, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz. Anno 1459, a cura di Elsa Aichner, Milano, SE, 2014. Collocazione: 35. B. 16054
immagine di Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce (1989)
Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce (1989)
Come in molte altre occasioni, possiamo riscontrare una stretta correlazione fra la produzione narrativa di Eco e il suo lavoro di collaborazione con la casa editrice Bompiani. L’anno successivo all’uscita del Pendolo, l’editore pubblica infatti questo libro del francese Paul Arnold, comparso per la prima volta nel 1955 ma che rimane secondo Eco, che firma la prefazione al libro, uno degli studi migliori sui Rosa-Croce. Ciò che lo rende di grande interesse è lo scetticismo con cui Arnold affronta lo studio di questa setta, misteriosa se non inesistente, almeno nelle forme attribuitegli dalla leggenda:   «Qualcuno potrà accusare Arnold di peccare per eccesso di scetticismo, ma non certo per eccesso di facilità. Ciò, visto l’argomento di cui si tratta, lo candida alla riconoscenza preliminare di tutti coloro che affrontano con rigorosi intenti storiografici l’incredibile vicenda dei Rosa-Croce». (Umberto Eco, Arnold e i Rosa-Croce, in Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce, p. 5-14: 14).   Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce, a cura di Giuseppina Bonerba, prefazione di Umberto Eco, [Milano], Bompiani, 1989. Collocazione: 35. B. 19255
immagine di Guillaume Postel, Absconditorum à constitutione mundi  clavis (1646)
Guillaume Postel, Absconditorum à constitutione mundi clavis (1646)
Nelle prossime immagini passeremo in rassegna alcuni degli autori che contribuirono maggiormente a stabilire e tramandare la tradizione ermetica e esoterica dei secoli XVI e XVII. Guillaume Postel è uno degli autori più citati nel Pendolo e dei più saccheggiati per la costruzione del Piano. Il titolo della sua opera maggiore, La chiave delle cose nascoste, ne fa intuire il motivo: tratta infatti dei significati magici che stanno sotto la superficie delle cose e che possono essere colti solamente dagli iniziati. Gli schemi e le figure che si trovano nell’opera, pubblicata in prima edizione nel 1547,  devono essere interpretati dopo averla letta e averne compreso la chiave segreta.   Guillaume Postel, Absconditorum à constitutione mundi clavis, Amsterdam, Jan Jansson, 1646. Collocazione: 3. RR. III. 15
immagine di John Dee, Monas Hieroglyphica (1564)
John Dee, Monas Hieroglyphica (1564)
John Dee, astrologo della corte d’Inghilterra, è protagonista di uno dei files che Casaubon trova nel computer di Belbo, intitolato Lo strano gabinetto del dottor Dee (cap. 73, p. 322-330). In Brasile, leggendo il libro sui Rosa-Croce scovato su una bancarella, Casaubon scopre «che [Dee] aveva rivelato tutti i segreti del cosmo in poche paginette di una Monas Ierogliphica» (cap. 30, p. 157), di cui vediamo il frontespizio della prima edizione.   John Dee, Monas hieroglyphica, Anversa, Willem Silvius, 1564. Collocazione: 10. cc. IV. 20
immagine di Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica historia
Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica historia
Nel capitolo 83 compaiono tre mappe (p. 361). L’ultima è un planisfero cosmografico tratto da quest’opera di Robert Fludd, «l'uomo dei Rosa-Croce a Londra [...]. Ora che cosa fa il nostro Roberto de Fluctibus, come amava farsi chiamare? Non presenta più una mappa ma una strana proiezione del globo intero dal punto di vista del Polo, del Polo mistico naturalmente, e dunque dal punto di vista di un Pendolo ideale appeso a una chiave di volta ideale. Questa è una carta concepita per essere messa sotto un Pendolo! Sono evidenze inconfutabili, com'è potuto accadere che nessuno ci abbia ancora pensato...» (cap. 83, p. 362). Nella seconda parte del romanzo, quando il Piano prende forma, Casaubon e Belbo dedicano molta attenzione alla cartografia. Eco mette in campo un suo grande interesse, che percorre anche Baudolino, l’attrazione per quelle che nel titolo di un saggio definisce Astronomie immaginarie:   «Voglio subito chiarire che parlando di geografie e astronomie immaginarie non mi occuperò dell’astrologia. [...] È che le geografie e le astronomie immaginarie di cui dirò sono state praticate da persone che esploravano in buona fede il cielo e la terra tal quali li vedevano - e se pure si sono ingannati, non possiamo dire che fossero in malafede. Invece chi si sta occupando ancora oggi di astrologia sa benissimo che si riferisce a una volta celeste diversa da quella che ormai l’astronomia ha esplorato e definito, eppure continua a comportarsi come se quell’immagine del cielo fosse vera. Di fronte alla malafede degli astrologi non si può esercitare alcuna simpatia. Non è gente che si sia ingannata, sono degli ingannatori. Chiuso l’argomento». (Umberto Eco, Astronomie immaginarie, in Id., Costruire il nemico e altri scritti occasionali, p. 217-251: 217-218).    Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica historia in duo volumina secundum cosmi differentiam diuisa, 2 vol., Francoforte sul Meno, Johann Theodor de erben Bry, 1624. Collocazione: 10. B. I. 11
immagine di Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica historia
Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica historia
Un’illustrazione tratta dall’opera di Fludd, in cui vengono sintetizzate le «corrispondenze micro-macrocosmiche» (cap. 83, p. 362) che collegano tutti gli elementi della natura secondo la tradizione esoterica dei secoli XVI e XVII.   Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica historia in duo volumina secundum cosmi differentiam diuisa, 2 vol., Francoforte sul Meno, Johann Theodor de erben Bry, 1624. Collocazione: 10. B. I. 11
immagine di Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus secundus, pars altera (1653)
Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus secundus, pars altera (1653)
Il gesuita Athanasius Kircher nell’Oedipus Aegyptiacus studia la cultura egizia del passato in tutti i suoi aspetti. L’illustrazione rappresenta la concezione astrale «Ex mente Aegyptorum», come recitano le didascalie, dando conto di una delle molte astronomie immaginarie a cui, come abbiamo visto, Eco dedica la propria attenzione in diversi testi.   Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus secundus, pars altera , Roma, Vitale Mascardi, 1653. Collocazione: 11. BB. V. 3  
immagine di Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus secundus, pars altera (1653)
Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus secundus, pars altera (1653)
Anche in Kircher, pur se filtrato attraverso la cultura egizia, ritroviamo l’interesse per una visione del mondo strutturata sulle corrispondenze fra micro e macrocosmo. Quest’immagine illustra pagine in cui vengono stabilite correlazioni stringenti fra le costellazioni e la cura del corpo umano. La stessa relazione fra astri e medicina si riscontra nel Teatro Anatomico del Palazzo dell’Archiginnasio, in particolare nella decorazione del soffitto, come spiegato nella mostra online Augustissima Musarum Domicilia:   «Il soffitto a cassettoni, realizzato nel 1645 da Antonio Levanti, è decorato con figure simboliche rappresentanti quattordici costellazioni e al centro Apollo, nume protettore della medicina.La scelta del tema astrologico risale alla tradizione di consultare gli astri prima di procedere alle operazioni o di somministrare farmaci, secondo una concezione della medicina che risente dell’influsso esercitato in tutt’Europa dalla scienza antica diffusa dagli Arabi fin dai tempi della conquista della Spagna».   Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus secundus, pars altera , Roma, Vitale Mascardi, 1653. Collocazione: 11. BB. V. 3
immagine di Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus tertius (1654)
Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus tertius (1654)
Athanasius Kircher si occupò anche di studiare e interpretare i geroglifici egizi. Lo sa bene Agliè, che non solo custodisce l’Oedipus Aegyptiacus nella sua biblioteca privata, ma vuole anche dare a intendere - per alimentare la convinzione che lui sia il Conte di San Germano - di avere conosciuto Kircher di persona:   «Diotallevi accennò timidamente a toccare i volumi. “La prego,” disse Agliè, “è l'Oedypus Aegyptiacus di Athanasius Kircher. Loro lo sanno, fu il primo dopo Orapollo che tentasse di interpretare i geroglifici. Uomo affascinante, vorrei che questo mio fosse come il suo museo delle meraviglie, che ora si vuole disperso, perché chi non sa cercare non trova... Conversatore amabilissimo. Come era fiero il giorno che scoprì che questo geroglifico significava ‘i benefici del divino Osiride siano provvisti da cerimonie sacre e dalla catena dei geni’ [...]”» (cap. 47, p. 226).   Questa splendida tavola ha dimensioni 755x490 mm.   Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus tertius, Roma, Vitale Mascardi, 1654. Collocazione: 11. BB. V. 4
immagine di Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus tertius (1654)
Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus tertius (1654)
Kircher offre numerosi esempi di interpretazione di geroglifici e altre simbologie presenti su sarcofagi e mummie.   Athanasius Kircher, Oedipus Aegyptiacus. Tomus tertius, Roma, Vitale Mascardi, 1654. Collocazione: 11. BB. V. 4
immagine di Athanasius Kircher, Mundus subterraneus. Tomus primus (1665)
Athanasius Kircher, Mundus subterraneus. Tomus primus (1665)
Un’altra opera di Kircher che i tre redattori della Garamond saccheggiano per la costruzione del Piano è il Mundus subterraneus. Anche questo è un lavoro ponderoso che tende a stabilire connessioni fra ogni aspetto del mondo naturale, sperimentato o immaginato. All’interno vi si trova anche un capitolo De motu pendulorum.   Athanasius Kircher, Mundus subterraneus in XII libros digestus. Tomus primus, Johannes Janssonius van Waesberge <1.> & Elizaeus Weyerstraten <1.>, 1665. Collocazione: BOERIS C. 62 / 1  
immagine di Athanasius Kircher, Mundus subterraneus. Tomus secundus (1665)
Athanasius Kircher, Mundus subterraneus. Tomus secundus (1665)
Il personaggio del romanzo maggiormente affascinato e attratto dal mondo del sottosuolo è il tassidermista Salon. Durante la visita al suo laboratorio-antro Casaubon, fra le molte meraviglie animali, ne incontra anche una bibliografica:   «Mi scossi, perché Salon stava parlando, e traeva una strana creatura da uno dei suoi scaffali. Sarà stata lunga una trentina di centimetri ed era certamente un drago, un rettile dalle grandi ali nere e membranose, con una cresta di gallo e le fauci spalancate irte di minuscoli denti a sega. “Bello vero? Una mia composizione. Ho usato una salamandra, un pipistrello, le scaglie di un serpente... Un drago del sottosuolo. Mi sono ispirato a questo...” Mi mostrò su un altro tavolo un grosso volume in folio, dalla rilegatura di pergamena antica, con lacci di cuoio. “Mi è costato un occhio della testa, non sono un bibliofilo, ma questo volevo averlo. È il Mundus Subterraneus di Athanasius Kircher, prima edizione, 1665. Ecco il dragone. Uguale, non le pare? Vive negli anfratti dei vulcani, diceva quel buon gesuita, che sapeva tutto, del noto, dell'ignoto e dell'inesistente...”» (cap. 78, p. 348).   In realtà la descrizione che viene data di questo Frankestein animale non assomiglia con precisione né al gallo con coda di serpente che vediamo in questa immagine, né agli altri esemplari illustrati nel paragrafo De Draconibus Subterraneis del volume di Kircher.   Athanasius Kircher, Mundus subterraneus in XII libros digestus. Tomus primus, Johannes Janssonius van Waesberge <1.> & Elizaeus Weyerstraten <1.>, 1665. Collocazione: BOERIS C. 62 / 2
immagine di Costantino Paglialunga, Alla scoperta della terra cava (2010)
Costantino Paglialunga, Alla scoperta della terra cava (2010)
L’interesse per il mondo sotterraneo permette di fare rientrare all’interno del Piano la teoria della terra cava, che in un colpo solo risolve due problemi. Innanzitutto spiega l’interesse dei “diabolici” per torri, menhir, cattedrali gotiche e altre costruzioni che si slanciano verso il cielo, che sono appunto conduttori per le correnti telluriche che si generano all’interno della cavità vuota che si trova sotto la crosta terrestre. Inoltre trascina dentro il Piano anche Hitler:   «“Mi compiaccio, Casaubon, nella sua innocenza ha avuto un'intuizione esatta. La vera, unica ossessione di Hitler erano le correnti sotterranee. Hitler aderiva alla teoria della terra cava, la Hohlweltlehre”» (cap. 100, p. 402).   Le diverse teorie sorte nei secoli relativamente alla forma della Terra - e quindi anche le tante che hanno ipotizzato che il nostro pianeta sia cavo (e, in alcuni casi, che noi ne abitiamo la parte interna) - sono oggetto di studio per Eco. Nel 2001 pubblica il breve saggio Dalla Terra piatta alla Terra cava nel catalogo della mostra Segni e sogni della terra: il disegno del mondo dal mito di Atlante alla geografia delle reti (p. 15-22). In conclusione a questo scritto Eco mostra che la teoria della terra cava è tutt’altro che scomparsa. Cita infatti il sito Our Hollow Earth, che nella grafica non sembra essersi rinnovato da quel lontano 2001, ma risulta ancora attivo se è vero che chi lo gestisce il 21 febbraio 2025 ha inviato un messaggio al presidente U.S.A. Donald Trump. Questo libro risale invece al 2010. La quarta di copertina ipotizza che Ettore Majorana sia scomparso al centro della Terra. Un altro libro che Belbo avrebbe senza dubbio indirizzato verso la Manuzio.   Costantino Paglialunga, Alla scoperta della terra cava. Eldorado, Agartha, Shamballah. Quali storie e quante realtà si nascondono all'interno del nostro pianeta, Nuova ed. aggiornata, Cesena, Macro, 2010. Collocazione: ARPE-FC A. 250
immagine di Cagliostro
Cagliostro
Parlando del comte de Saint-Germain abbiamo detto che la sua misteriosa presenza compare anche nelle memorie di Giuseppe Balsamo, il conte di Cagliostro, che a sua volta non poteva mancare nella bizzarra teoria di personaggi che compaiono o vengono evocati nel Pendolo. Belbo, in una lettera a Casaubon (cap. 24 p. 136-138), racconta di essersi recato, per curiosità, a visitare la fortezza di San Leo, dove Cagliostro venne imprigionato. La curiosità per la figura del conte è tale da portarlo a intrufolarsi all’interno di un rito di evocazione del suo spirito, tenuto dal gruppo di “diabolici” che fa capo alla rivista esoterica «Picatrix» (titolo che a noi non può non portare alla mente l’omonimo romanzo di Valerio Evangelisti). Nel romanzo viene ricordato anche il coinvolgimento di Giuseppe Balsamo nello «scandalo del Collare della Regina» (cap. 75, p. 336) che coinvolse Maria Antonietta di Francia. In questo volume sono stati raccolti dai bibliotecari 14 documenti che fecero parte degli atti del processo che seguì quella vicenda, alcuni dei quali relativi proprio a Cagliostro.   Recueil de toutes les pieces sur l'affaire du grand Collier en brillants entre m. le procureur general du Parlement de Paris et son eminence le cardinal de Rohan et autres co-accuses, 1786. Collocazione: VENTURINI E 12 op. 1-14    
immagine di Éliphas Levi, La storia della magia (1922)
Éliphas Levi, La storia della magia (1922)
Come citazione iniziale del capitolo 23 si trova una frase tratta da Dogme de la haute magie di Éliphas Levi, la cui figura è importante per portare anche la massoneria ottocentesca all’interno del Piano. Di Levi proponiamo però un’illustrazione tratta da un’altra opera, che Eco non cita direttamente ma che viene evocata quando, nel capitolo 64, Garamond commissiona a Casaubon la redazione di una Storia della magia per la nuova collana della Manuzio dedicata alle scienze esoteriche, Iside svelata. L’illustrazione mostra il consueto, misterioso schema che spiega le connessioni segrete fra i vari elementi della natura, ma a noi lettori del Pendolo non sfugge l’uso della parola Piano nella didascalia. Se ragionassimo ancora una volta da “diabolici”, vi vedremmo un chiaro indizio del fatto che Levi è un precursore di Casaubon.   Éliphas Levi, La storia della magia. Con una esposizione chiara e precisa delle sue regole, dei suoi riti e dei suoi misteri, Todi, Atanor, 1922. Collocazione: SOULIER C. 60
immagine di Éliphas Levi, La storia della magia (1922)
Éliphas Levi, La storia della magia (1922)
Nella gallery dedicata a Il nome della rosa ci eravamo impegnati a cercare i marginalia di alcuni manoscritti, in cui il copista o il lettore avevano lasciato una traccia del loro passaggio tra le carte del volume. Il libro di Levi visto nell’immagine precedente ci mostra che anche un testo moderno può recare segni di lettura significativi, come vediamo in questa e altre pagine (in cui trovate anche tutte le illustrazioni). Il lettore che ha lasciato questi marginalia dimostra lo stesso entusiasmo per le scienze occulte su cui Eco ironizza a più riprese nelle pagine del Pendolo.   Éliphas Levi, La storia della magia. Con una esposizione chiara e precisa delle sue regole, dei suoi riti e dei suoi misteri, Todi, Atanor, 1922. Collocazione: SOULIER C. 60
immagine di Helena Petrovna Blavatsky
Helena Petrovna Blavatsky
Il titolo della collana dedicata alle scienze magiche ed esoteriche che Garamond vuole inaugurare per la Manuzio trae il titolo dalla prima, monumentale opera di Helena Petrovna Blavatsky, Isis unveiled, uscita in prima edizione inglese nel 1877 negli Stati Uniti, «a masterful exposition of the intertwined histories of Christianity and occultism» (Gauri Viswanathan, Helena Petrovna Blavatsky: Isis unveiled. A master-key to the mysteries of ancient and modern science and theology (United States, 1877), in Religious dynamics under the impact of imperialism and colonialism, p172-185: 183).  Nella cronologia del capitolo 75 del Pendolo, Eco sbaglia la data della prima edizione, indicando il 1875 (errore confermato anche nell’edizione del 2018), che è invece la data in cui madame Blavatsky fonda la Società Teosofica a New York (come correttamente indica la cronologia). C’è un’altra curiosità redazionale che riguarda la grande esperta di occultismo e chiaroveggenza. La prima edizione del Pendolo riportava in tre occasioni la forma errata del cognome Blawatsky (nelle citazioni iniziali dei cap. 88 e 97 e nel cap. 96, p. 387). La già ciatata edizione del 2018 corregge l’errore nelle citazioni iniziali, mentre la terza occorrenza di «Blawatsky» cade perchè nel cap. 96 vengono eliminate alcune righe relative ai Protocolli dei Savi di Sion. Quest’ultima modifica la si ritrova già nell’edizione pubblicata nella collana Tascabili da Bompiani nel 2013, quindi sicuramente si tratta di una correzione d’autore. In questa stessa edizione invece sopravvivono le due occorrenze di «Blawatsky» presenti nelle citazioni iniziali dei capitolo 88 e 97. La stessa situazione si ripropone nell’edizione Bompiani del 2016 nella collana Grandi Tascabili. Non abbiamo notizie sul motivo per cui nel capitolo 96 vengano eliminate alcune righe. L’unica supposizione che si può fare è che l’eliminazione di quelle poche righe sia dovuta al fatto che ne Il cimitero di Praga, uscito nel 2010 e in cui come ben sappiamo la storia dei Protocolli è approfondita ben più che nel Pendolo, la Blavatsky viene citata nal capitolo 23 (p. 389 della prima edizione), insieme a madame Glinka, in un passo che ricorda da vicino le righe espunte dal Pendolo. La nuova edizione del romanzo più datato forse ha voluto eliminare quella che ai lettori poteva sembrare una ripetizione fra i due testi. Oppure i più approfonditi studi sui Protocolli avevano portato Eco a ritenere non del tutto corretto quanto scritto nella prima edizione del Pendolo. Non abbiamo strumenti per approfondire la cosa, anche perché altre modifiche limitate come questa potrebbero essere state apportate al testo nelle varie edizioni e per individuarle servirebbe uno studio comparativo dettagliato che non è nei nostri scopi. Non abbiamo infatti trovato, in nessuno dei testi da noi consultati, accenni a questa o altre eventuali modifiche testuali.   Teresa Ferraris, Helena Petrowna Blavatsky, Genova, tip. A. Ciminago, s.d. Collocazione: 5-BIOGRAF. ELOGI Cart. B12, 47
immagine di Kalendarium Gregorianum perpetuum (1582)
Kalendarium Gregorianum perpetuum (1582)
Il presunto messaggio cifrato rinvenuto a Provins, nell’interpretazione esoterica proposta dal colonnello Ardenti e fatta propria del trio Belbo-Casaubon-Diotallevi, prevede sei appuntamenti programmati sempre la notte di san Giovanni a distanza di 120 anni l’uno dall’altro - a partire dal 1344 - in sei luoghi diversi. Il terzo appuntamento, in cui il gruppo di iniziati inglesi dovrebbe incontrare quello francese a Parigi, deve avvenire nella notte fra il 23 e il 24 giugno 1584. Ma un evento di portata storica lo fa fallire:   «“La riforma gregoriana del calendario! Ma è naturale. Nel 1582 entra in vigore la riforma gregoriana che corregge il calendario giuliano, e per ristabilire l'equilibrio abolisce dieci giorni del mese di ottobre, dal 5 al 14!” “Ma l'appuntamento in Francia è per il 1584, la notte di San Giovanni, il 23 giugno,” disse Belbo. “Infatti. Ma se ben ricordo, la riforma non è entrata subito in vigore dappertutto.” Consultai il Calendario Perpetuo che avevamo negli scaffali. “Ecco, la riforma viene promulgata nel 1582, e si aboliscono i giorni dal 5 al 14 ottobre, ma questo funziona solo per il papa. La Francia adotta la riforma nel 1583 e abolisce i giorni dal 10 al 19 dicembre. In Germania succede uno scisma e le regioni cattoliche adottano la riforma nel 1584, come in Boemia, mentre le regioni protestanti l'adottano nel 1775, capite, quasi duecento anni dopo, per non dire della Bulgaria – questo è un dato da tener presente – che l'adotta solo nel 1917. Vediamo ora l'Inghilterra... Passa alla riforma gregoriana nel 1752! Naturale, in odio ai papisti quegli anglicani resistono anche loro due secoli. E allora capite cosa è successo. La Francia abolisce dieci giorni a fine ‘83 e per il giugno 1584 tutti si sono abituati. Ma quando in Francia è il 23 giugno del 1584 in Inghilterra è ancora il 13 giugno e immaginatevi se un bravo inglese, per quanto templare, e specie in quei tempi in cui le informazioni andavano ancora a rilento, ha tenuto conto della faccenda [...]”» (cap. 73, p. 316-317).   La riforma gregoriana del calendario, che nel gioco dei redattori della Garamond rischia di mandare in frantumi il piano segreto dei Templari per la conquista del mondo, si chiama così perché voluta da papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, docente di diritto presso lo Studium bolognese. Lo stesso che aveva fatto affrescare nel 1575 una delle più famose mappe della città nel Palazzo Apostolico Vaticano. Prima o poi ogni stato dovrà allineare il proprio calendario a quello della Chiesa Cattolica, unica vera istituzione che in quel tempo può vantare un potere e un’influenza tale da “imporre” questa riforma almeno a tutto il mondo occidentale. Questo è il documento ufficiale con cui la riforma viene comunicata, naturalmente poi tradotto in lingue diverse dal latino proprio per la necessità di renderla il più universale possibile (qui i frontespizi delle versioni in italiano e in greco). L’opuscolo, oltre che delle conseguenze che ha la cancellazione dei 10 giorni dell’ottobre 1582 sul calendario ecclesiastico, si occupa anche della problematica che nel Pendolo fa fallire l’appuntamento fra francesi e inglesi, cioè il fatto che gli stati vi si adegueranno in anni diversi (si veda, tratto dalla traduzione italiana, il paragrafo Quello che si debbe osservare se la correttione del calendario non sarà fatta l’anno MDLXXXII, c. 11r-12r).   Chiesa Cattolica, Kalendarium Gregorianum perpetuum, a cura di Antonio Lilio, Venezia, eredi di Melchiorre Sessa <1.>, 1582. Collocazione: 11. T. V. 18 op. 1   Chiesa Cattolica, Il Calendario Gregoriano perpetuo. Con priuilegio del sommo pontefice, del Senato veneto, e d'altri prencipi, tradotto dal latino nell'italiano idioma dal reuerendo M. Bartholomeo Dionigi da Fano, Venezia, Giovanni Battista Sessa <2.> & fratelli, 1582. Collocazione: 11. T. V. 18 op. 2   Chiesa Cattolica, Kalendarion Grēgorianon aidion o nyn prostagmati tou agiōtatou, kai makariōtatou Grēgoriou triskaidekatou ... ek tēs Latinōn phōnēs eis tēn Ellenida dialekton Ioannēs Baptistēs o Gabios metēneuken, Roma, Francesco Zanetti, 1582. Collocazione: 5. c. I. 28
immagine di Il calendario di suor Ortensia
Il calendario di suor Ortensia
La versione latina e quella italiana dell’opuscolo che illustra la riforma gregoriana e le sue conseguenze sono legate in un unico volume, giunto alla Biblioteca dell’Archiginnasio dal convento dei Santi Ludovico e Alessio di Bologna, in cui si erano stabiliti i gesuiti quando nel 1814 la Compagnia di Gesù venne ripristinata da Pio VII (vi rimasero fino al 1859). Precedentemente in quel convento si trovavano le suore Francescane. Il volume conserva le tracce di questi passaggi di proprietà. Sulla carta di guardia anteriore infatti è ben visibile la nota manoscritta «questo libro sia, de suor, ortensia». Nelle controguardie anteriore e posteriore si trovano invece due precedenti collocazioni relative al convento dei Santi Ludovico e Alessio.   Chiesa Cattolica, Kalendarium Gregorianum perpetuum, a cura di Antonio Lilio, Venezia, eredi di Melchiorre Sessa <1.>, 1582. Collocazione: 11. T. V. 18 op. 1   Chiesa Cattolica, Il Calendario Gregoriano perpetuo. Con priuilegio del sommo pontefice, del Senato veneto, e d'altri prencipi, tradotto dal latino nell'italiano idioma dal reuerendo M. Bartholomeo Dionigi da Fano, Venezia, Giovanni Battista Sessa <2.> & fratelli, 1582. Collocazione: 11. T. V. 18 op. 2
immagine di Tabulae Gregorianae motuum octauae spherae ac luminarium ad vsum calendarij ecclesiastici (1580)
Tabulae Gregorianae motuum octauae spherae ac luminarium ad vsum calendarij ecclesiastici (1580)
La riforma gregoriana venne naturalmente preceduta da studi approfonditi, per metterla a punto e valutarne le conseguenze. In quest’opera del 1580 il matematico Giuseppe Moleti presenta le sue proposte per la riforma, basate sulle tavole dei moti delle stelle fisse, del Sole e della Luna e corredate di una serie di indicazioni - De corrigendo calendario - sulle correzioni da apportare al calendario ecclesiastico. Il suo studio venne apprezzato alla corte papale, anche se alcune proposte - fra cui quella di spostare la data dell’equinozio di primavera dal 21 al 25 marzo, più corretto dal punto di vista astronomico - non vennero accettate perché troppo radicali rispetto alla tradizione.   Giuseppe Moleti, Tabulae Gregorianae motuum octauae spherae ac luminarium ad vsum calendarij ecclesiastici, & ad vrbis Romæ meridianum supputatae; per Iosephum Moletium ... Adiecti sunt libri duo De corrigendo calendario, & de vsu computi ecclesiastici, Venezia, Pietro Deuchino, 1580. Collocazione: 11. T. II. 08
immagine di Ugolino Martelli, La chiave del calendaro gregoriano (1583)
Ugolino Martelli, La chiave del calendaro gregoriano (1583)
Una delle molte opere che parteciparono al dibattito sorto in seguito alla riforma del calendario, scritta dal vescovo umanista Ugolino Martelli.   Ugolino Martelli, La chiave del calendaro gregoriano, Lione, François Conrard, 1583. Collocazione: 11. T. V. 11
immagine di Gregorio XIII in Archiginnasio
Gregorio XIII in Archiginnasio
Di Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, si trovano numerose tracce fra gli stemmi e le memorie che decorano il Palazzo dell’Archiginnasio. La sua opera di riformatore del calendario viene celebrata da questa targa, purtroppo molto rovinata, inserita all’interno di un più ampio complesso di memorie collocato nel loggiato superiore. Sull’argomento si veda l’articolo di Gherardo Forni Papa Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, bolognese) ed il ricordo di lui nell’Archiginnasio quale riformatore del calendario («Strenna storica bolognese», VIII, 1958, p. 68-74).
immagine di Wu Ming 1, La Q di Qomplotto (2021)
Wu Ming 1, La Q di Qomplotto (2021)
Il collettivo Wu Ming si è trovato spesso ad incrociare la strada di Umberto Eco, a partire da quando del loro primo romanzo Q si diceva che fosse stato scritto dal professore di Alessandria nascosto dallo pseudonimo Luther Blissett (nome utilizzato dal collettivo fino al 1999). L’incontro più significativo è sicuramente quello letterario che si verifica in La Q di Qomplotto di Wu Ming 1, testo dedicato ad analizzare come nascono, si sviluppano e crescono le fantasie di complotto. Il pendolo di Foucault è uno dei testi di riferimento per mostrare come quella che è, appunto, una fantasia - inventata con le più varie finalità - può diventare realtà e avere un impatto ben concreto e importante sulla vita delle persone e della società. L’autore però non si limita a citare il Pendolo, ma ne prende a prestito i personaggi e un’ambientazione, il bar Pilade. È lì che si svolge tutta la seconda parte del testo di Wu Ming e che, in una dimensione onirica, l’autore (che è lui stesso personaggio) incontra i protagonisti del romanzo di Eco e gli racconta come le fantasie di complotto siano sempre esistite nel corso dei secoli, spesso con una continuità tematica sorprendente. Una situazione che ricorda i capitoli in cui Casaubon, proprio all’interno del bar Pilade, racconta a Belbo e Casaubon la storia dei Templari. Wu Ming 1 si appropria così a fondo della vita dei personaggi del Pendolo che aggiunge alla discussione anche Valentina Belbo, cugina di Jacopo, della quale non si trova traccia nel romanzo. Quanto questi personaggi siano importanti per la costruzione del ragionamento di La Q di Qomplotto lo si evince anche da quello che è l’indice dei nomi del testo, non presente nel libro ma pubblicato successivamente nel piccolo opuscolo L'elenco telefonico della Q di Qomplotto.   Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre, 2021. Collocazione: 20. S. 9
immagine di J.K. Rowling, Harry Potter and the Philosopher's Stone (1997)
J.K. Rowling, Harry Potter and the Philosopher's Stone (1997)
Questa è la copertina di una ristampa della prima edizione inglese del primo libro della saga di Harry Potter. Possibile che anche lui abbia qualcosa a che fare con Il pendolo di Foucault? Per chiudere questa rassegna, vogliamo ragionare ancora una volta alla maniera dei “diabolici” interpretati da Belbo-Casaubon-Diotallevi. Dobbiamo quindi credere fino in fondo nel loro modo di leggere le cose: «a voler trovare connessioni se ne trovano sempre, dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete, in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto...» (cap. 85, p. 365). Questa volta porteremo il gioco all’estremo, tanto che arriveremo a citare, fra i documenti da prendere in considerazione, un post di Facebook. Ma andiamo per ordine. Harry è un mago, immerso in un mondo di maghi, streghe, animali fantastici, oggetti meravigliosi e incantesimi. Se aggiungiamo il riferimento alchemico alla pietra filosofale presente nel titolo di questo primo volume, è ben chiaro che la distanza dal Pendolo non è impossibile da colmare, anzi. Infatti la saga del maghetto è stata letta in alcuni casi come «una copertura per veicolare messaggi subliminali di ogni tipo ai giovanissimi». Ormai è fatta, abbiamo citato il post di Facebook. Potete leggerlo interamente nella prossima immagine.   J.K. Rowling, Harry Potter and the philosopher's stone, London, Bloomsbury, 1997. Collocazione: INFANTE K. 847 / 1
immagine di La Chiave Orgonica vs. Harry Potter
La Chiave Orgonica vs. Harry Potter
Il profilo su cui viene pubblicato questo post si chiama La Chiave Orgonica. L’occasione è l’annuncio dei nomi dei tre giovani attori che, nell’imminente serie TV tratta dai romanzi, interpreteranno i protagonisti della storia, Harry, Hermione e Ron. In questa foto - che a uno sguardo ingenuo sembra semplicemente l’immagine innocente e fresca con cui tre giovani preadolescenti si presentano a un mondo di fans pronti a idolatrarli o sbranarli - La Chiave Orgonica individua una serie di messaggi esoterici nascosti: l’intreccio delle mani della novella Hermione, il triangolo formato dalla postura di Harry, la mano nascosta di Ron. Ciò che non si vede - «cosa nasconde nella sua mano, misteriosamente (ma non troppo) occultata da un ciuffo d’erba?» - è il messaggio più inquietante: siamo pienamente nello stile dei “diabolici”. Che la Chiave Orgonica scriva il post con convinzione, che voglia semplicemente suscitare curiosità o addirittura fare dell’ironia (sfogliando la loro pagina si propende per la prima ipotesi...) non è importante. Proprio la tragica vicenda del Pendolo, in cui almeno due dei tre protagonisti perdono la vita per avere estremizzato il gioco, ci ha insegnato che si troverà sempre qualcuno pronto a credere alle affermazioni più sorprendenti e non documentate e a prenderle molto sul serio. Il rischio paventato da Eco nel romanzo - perché (anche) questo è il Pendolo, un modo per metterci sull’avviso e insegnarci a ragionare, a mettere in dubbio, a diffidare sia delle spiegazioni troppo complesse che di quelle troppo semplicistiche - è sempre presente, oggi forse ancora più che al momento dell’uscita del libro a causa della possibilità di diffondere notizie in maniera immediata e universale. E anche un post di Facebook su una serie TV può non essere innocuo. Ma abbiamo detto che noi, forti di questa consapevolezza che speriamo ci protegga (ma non lo pensava forse anche Belbo?), vogliamo questa volta spingere il gioco all’estremo ed essere più “diabolici” di chi ha scritto questo breve testo. La Chiave Orgonica infatti dice che Alastair, il nome del giovane attore che impersonerà Ron, «potrebbe rievocare un messaggero delle stelle, ma in senso buono o cattivo?». Ma La Chiave Orgonica non coglie il vero, inquietante riferimento nascosto in quel nome. Noi invece, appena usciti dalla lettura del Pendolo, non possiamo fare a meno di notarlo (ma manteniamo la suspence fino all’immagine successiva...).
immagine di Aleister Crowley, Trattato di astrologia magica (1993)
Aleister Crowley, Trattato di astrologia magica (1993)
Non ci sono dubbi: la scelta di un attore di nome Alastair non può che essere un riferimento a Aleister Crowley, forse il più famoso esoterista della prima metà del XX secolo, «che fu definito l’uomo più perverso di tutti i tempi» (cap. 7, p. 48), del quale Eco cita un rituale all’inizio del capitolo 46. Colui che, pur morto nel 1947, divenne una leggenda all’interno della controcultura americana degli anni Sessanta e Settanta. Agliè, naturalmente, lo ha conosciuto, e lo giudica un impostore, uno «che evocava i demoni per ottenere le grazie di alcuni gentiluomini» (cap. 47, p. 227). Crowley non scrive un trattato di astrologia - e cosa pensi Eco degli astrologi lo abbiamo letto in precedenza - ma addirittura di astrologia magica. Da Harry Potter a Aleister Crowley, da Eco alla Chiave Orgonica, passando attraverso Facebook e Il pendolo di Foucault: si poteva sperare di meglio per chiudere in bellezza?   Aleister Crowley, Trattato di astrologia magica, Genova, ECIG, 1993. Collocazione: 20. E. 513
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