Musicologia: queer al quadrato
Incontro con Davide Daolmi
«Sregolata, sconnessa, mostruosa, grottesca.» Cosa può mai esservi di più queer dell’opera in musica? Dov’altro il cross-dressing ha sparigliato in modo così sistematico la gabbia culturale del genere in un seducente gioco di specchi entro e fuori il palcoscenico? Chi mai si è spinto oltre le vette del puro erotismo canoro che ammalia e avvince da secoli schiere di spettatori? E se molti omosessuali cadono vittima della “sindrome di Violetta” (Violetta c’est moi), o sviluppano un incontrollato feticismo vocale, chi – cautelandosi – non ha mai messo piede in un teatro d’opera non si senta per questo escluso. In fondo, sosteneva Wayne Koestenbaum, «l’omosessualità è un modo di cantare. Non posso essere gay, posso solo cantarlo».
Davide Daolmi, ricercatore presso il Dipartimento di Beni culturali e ambientali dell’Università degli studi di Milano. Si occupa di filologia musicale (è da poco uscita la sua edizione della "Petite messe solemnelle" di Rossini), studi di genere (ha pubblicato "L’omosessualità è un modo di cantare") e storia della cultura musicale: il suo ultimo libro "Trovatore amante spia" (2015) indaga i modi con cui l’Ottocento ha reinventato il Medioevo.
Coordina Jacopo Doti, dottore di ricerca in Cinema, Musica e Teatro.