North by Northwest
(USA/1959) di Alfred Hitchcock (136')
Anche North by Northwest è un’allucinazione americana, nel senso che Roberto Calasso attribuiva al film girato da Hitchcock solo un anno prima, La donna che visse due volte: in un caso, una donna accetta, per un disperato inganno, di diventare un’altra che è pura immagine mentale, “un idolo, una copia”; nell’altro un uomo si ritrova, per uno scherzo del destino, nei panni di qualcuno che non esiste. La differenza è che lui è Cary Grant, dunque al suo abito (al suo habitus) non rinuncia mai, e avrà salva la vita. Allucinatorio è il passo con cui il film procede, squilibrato, precipitoso, sempre di corsa verso traguardi indecifrabili, e che tuttavia, una volta che ci si è arrivati, si rivelano smaglianti esempi di locus americanus: la Oak Room del Plaza, l’atrio e il foyer delle Nazioni Unite, i corridoi dello sfrecciante 20th Century Limited, la perdita d’occhio delle grandi pianure, una casa ispirata a Frank Lloyd Wright, il Monte Rushmore.
Il sentimento grafico che domina North by Northwest è la voluttà della sproporzione: quest’uomo in fuga finisce a capofitto in scenari smisuratamente grandi, che disorientano lui e a noi tolgono il fiato, fino al contrappasso simbolico di doversi radere con un rasoio risibilmente piccolo. In fuga da cosa, esattamente? Analisi numerose e trascinanti sono state fatte di quel che il suo autore, sempre sornione, definiva “un film per famiglie” (ed è vero, naturalmente), di questo falso film di spionaggio (“una replica fastosa del Club dei 39”, Ray-mond Bellour), di questo affilato ed erotico romance. Roger Thornhill è in fuga da un “maternal super-ego”, come una ventina d’anni fa lo definì benissimo Slavoj Žižek, e tutti, possiamo dire, erano già d’accordo; in fuga da questa formidabile madre simpatica e castratrice, quasi coetanea (Jessie Royce Landis aveva sette anni più di Cary Grant) poiché per sempre fissata, nell’allucinazione edipica, al tempo in cui il figlio stava forse per cominciare il college. Così exit la mamma ed entra in scena una bionda di nome Eva, che subito s’adopera ad accelerare il percorso del nostro eroe verso la maturità sessuale. Tutto potrà sciogliersi solo dopo il confronto coi padri (“Sento che Theodore Roosevelt mi guarda” annuncia Cary Grant col cannocchiale puntato verso il Rushmore, un soprassalto di screwball), in un film che tra le sue maschere e i suoi pugnali non perde per un secondo l’esatto tempo della commedia, e si chiude con quel che servì ad ogni fugace ed eterno happy ending d’antico paradigma, un uomo, una donna e un’alcova.
Paola Cristalli
CAST AND CREDITS
Scen.: Ernest Lehman. F.: Robert Burks. M.: George Tomasini. Scgf.: Robert Boyle, William A. Horning, Merrill Pye. Mus.: Bernard Herrmann. Int.: Cary Grant (Roger Thornhill), Eva Marie Saint (Eve Kendall), James Mason (Phillip Vandamm), Jessie Royce Landis (Clara Thornhill), Leo G. Carroll (il professore), Josephine Hutchinson (signora Townsend), Philip Ober (Lester Townsend), Martin Landau (Leonard), Adam Williams (Valerian), Edward Platt (Victor Larrabee). Prod.: Alfred Hitchcock per Metro-GoldwynMayer Corp. 70mm. D.: 136’. Col.
In caso di pioggia, la proiezione si sposterà al Cinema Modernissimo
Serata promossa da Coop Alleanza 3.0